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L’Europa non è in grado di difendersi senza gli Stati Uniti

La cavalleria Usa non arriverà: l'Europa e la sfida della mobilità militare. L'analisi di John Pereira

Quando i venti di guerra arrivano dall’Est, è in genere con la primavera. Ad esempio, immaginiamo la primavera 2030 con un’Europa costretta a risvegliarsi sotto il fragore delle armi. Le basi lituane di Šiauliai e Malbork, avamposto di Nato e Ue, sono sotto attacco missilistico, con i 5.000 soldati della brigata corazzata tedesca di stanza lì in cerca di riparo sotto l’offensiva lanciata dalla Russia lungo il corridoio di Suwałki che collega la Bielorussia all’exclave russa di Kaliningrad. Ma c’è un problema: a differenza delle guerre del passato, non c’è nessuno sbarco in vista da parte delle truppe americane (ma si spera di almeno quelle britanniche e canadesi).

È il 2030, è in corso il terzo mandato di Donald Trump – bravo a forzare il divieto costituzionale grazie alla disponibilità di J.D. Vance a correre quale candidato fantoccio e della Corte Suprema ad appoggiare la corsa dell’artista del deal, e il ritiro americano dagli impegni di difesa europea è ormai in corso da alcuni anni. E l’Europa si trova a fare i conti con una verità scomoda: senza l’appoggio logistico e militare di Washington, la difesa europea vacilla pesantemente.

Un tema questo non solo militare, ma anche politico e culturale: per decenni, l’Europa ha – inevitabilmente, visto il risultato della II Guerra Mondiale – delegato la propria sicurezza agli Stati Uniti, concentrandosi su welfare e sviluppo economico. Ora, il conto di quella scelta rischia di presentarsi nella forma più brutale: l’impossibilità di difendere i propri confini.

LA DIPENDENZA STORICA DAGLI USA

Dal 1949, anno di nascita della Nato, l’Europa ha sempre contato sulla “cavalleria americana” per respingere eventuali aggressioni. I piani strategici prevedevano una resistenza iniziale da parte degli alleati europei, in attesa dell’arrivo di truppe, mezzi e rifornimenti dagli Stati Uniti attraverso porti come Rotterdam e Anversa. Questa dinamica ha permesso ai Paesi europei di mantenere bilanci della difesa relativamente bassi, confidando nella “ombrello” americano. Anche le infrastrutture strategiche, dagli aeroporti ai porti, fino alla rete ferroviaria e stradale, sono state sviluppate pensando a un supporto esterno.

Ma cosa succede se quell’appoggio non arriva più? La risposta è chiara: l’Europa non è pronta. Secondo un’analisi di Politico, gran parte delle infrastrutture logistiche europee — dai corridoi ferroviari alle reti di carburante — è stata progettata con l’assunto che gli Usa sarebbero sempre intervenuti. La rete di trasporto militare, ad esempio, si sviluppa prevalentemente da ovest verso est, riflettendo l’idea di rinforzi transatlantici.

LE CARENZE EUROPEE

L’Europa manca di capacità fondamentali: trasporti aerei pesanti, navi cargo militari, veicoli per il trasporto di carri armati. Come sottolineato da Kimberley Kruijver del TNO olandese, “possiamo muovere veicoli leggeri, ma non i mezzi pesanti”.

A questo si aggiunge la cronica mancanza di stock pre-posizionati. Gli Stati Uniti, per decenni, hanno mantenuto depositi strategici in Germania, Polonia e Paesi Bassi. L’Europa, invece, non ha sviluppato una rete autonoma di magazzini e scorte, rendendo ogni operazione militare un’impresa logistica complicata e lenta.

Inoltre, la dipendenza dall’intelligence americana, dalla difesa cyber e dai sistemi satellitari rappresenta un ulteriore tallone d’Achille. Senza Washington, la sorveglianza in tempo reale e la protezione delle reti militari europee sarebbero gravemente compromesse.

LA FRAGILITÀ DELLE INFRASTRUTTURE

Il Generale Ben Hodges – ex comandante delle truppe Usa in Europa – ha definito le infrastrutture europee “una delle maggiori sfide” per la mobilità militare. Ponti incapaci di reggere il peso dei carri armati, tunnel troppo stretti per i convogli militari, segnaletica inadeguata: questo il panorama che ostacola qualsiasi rapido dispiegamento di forze.

Un aspetto spesso trascurato è che molte infrastrutture moderne sono state progettate esclusivamente per fini civili, senza tenere conto delle necessità militari. La mancanza di segnaletica standardizzata a livello europeo, le differenti normative sui trasporti eccezionali e le restrizioni ambientali rendono ogni spostamento un labirinto burocratico.

Un rapporto di NATO JSEC ha evidenziato come la burocrazia nazionale rappresenti un freno significativo, con regolamenti che rallentano il movimento di truppe e munizioni.

IL PROGETTO DEL “SCHENGEN MILITARE”

Per ovviare a questi problemi, il comandante JSEC Alexander Sollfrank ha proposto la creazione di una “Schengen militare“, ovvero una zona di libero passaggio per i movimenti delle forze armate, simile a quella esistente per i civili. Una scelta necessaria, non per niente fortemente criticata dal Cremlino. Tuttavia, l’attuazione è complessa e ostacolata da divergenze politiche tra Stati membri.

L’idea di un’integrazione logistica europea in ambito militare si scontra con la tradizionale gelosia degli Stati sul controllo dei propri territori. Inoltre, le differenze tra membri Ue e Nato (con Paesi come Norvegia e Turchia dentro l’Alleanza ma fuori dall’Unione) complicano ulteriormente la questione.

Nel frattempo, la Nato sviluppa corridoi alternativi per evitare le direttrici più esposte: dall’Italia verso l’Est Europa passando per Slovenia e Croazia, o lungo l’asse Grecia-Bulgaria-Romania. Ma senza eliminare i colli di bottiglia burocratici, anche questi percorsi rischiano di rivelarsi inefficaci.

LA MILITARIZZAZIONE DELLE FERROVIE EUROPEE

In questo contesto si inserisce l’accordo tra RFI e Leonardo per l’adeguamento della rete ferroviaria italiana alla mobilità militare. L’iniziativa fa parte del Piano d’Azione UE 2.0 sulla mobilità militare, che prevede 38 nuovi progetti infrastrutturali. Tra questi spicca il contestato TAV Torino-Lione, il cui utilizzo appare sempre più legato a esigenze strategiche militari piuttosto che civili.

Le restrizioni di peso sulle strade europee, unite alla necessità di trasportare mezzi pesanti e munizioni, spingono verso una crescente “militarizzazione” della rete ferroviaria. Tuttavia, questo processo avviene spesso a discapito del trasporto civile e pendolare, sollevando critiche da sindacati e associazioni.

La Commissione Europea ha già stanziato 1,74 miliardi di euro per 95 progetti, ma la Corte dei Conti Europea ha recentemente criticato i ritardi e le inefficienze, invitando ad attingere anche dai fondi destinati al trasporto civile.

LA RETE DI OLEODOTTI: IL VERO TALLONE D’ACHILLE

Uno degli aspetti meno discussi ma più critici riguarda la logistica del carburante. I generali Nato hanno definito l’attuale catena di approvvigionamento di carburante come il tallone d’Achille della difesa del fianco orientale. Mentre munizioni e pezzi di ricambio possono essere trasportati via ferrovia o aereo, il rifornimento di carburante — in particolare il cherosene per le operazioni aeree — è gravemente insufficiente.

Per questo l’Alleanza ha avviato uno dei suoi progetti infrastrutturali più ambiziosi: l’estensione della rete di oleodotti attraverso la Germania, con il potenziamento del Central Europe Pipeline System (CEPS) e del North European Pipeline System (NEPS).

L’obiettivo è garantire l’approvvigionamento continuo alle basi avanzate e ai contingenti schierati sul fianco orientale. La Germania, hub logistico europeo per eccellenza, avrà un ruolo centrale, soprattutto con il suo dispiegamento di una brigata completa in Lituania, la prima volta dalla II Guerra Mondiale durante la quale l’Operazione Barbarossa portata avanti dai nazisti contro l’Unione Sovietica falli proprio a causa – ma non solo – della sottovalutazione dei problemi logistici da parte dei generali di Hitler (considerazione quest’ultima, si precisa, puramente tecnica).

Il progetto, dal costo stimato di 21 miliardi di euro, vede la Germania impegnata con oltre 3,5 miliardi, mentre cresce la pressione su Francia e altri alleati per contribuire maggiormente, soprattutto in un contesto di riduzione della spesa americana. Tuttavia, il percorso è irto di ostacoli legali e ambientali, con la conclusione dei lavori prevista non prima del 2035. Si discute quindi l’introduzione di un “Infrastructure Acceleration Act“, sul modello delle misure adottate per i terminal LNG durante la crisi energetica del 2022.

VERSO UN’AUTONOMIA STRATEGICA?

Nonostante gli sforzi di JSEC, della Commissione Europea e i nuovi progetti infrastrutturali come quello degli oleodotti, l’Europa continua a prepararsi per una guerra secondo schemi del passato, contando su un supporto americano che potrebbe non arrivare mai più. Il dibattito sull’autonomia strategica europea resta acceso. Alcuni Paesi, come la Francia, spingono da anni per una “difesa europea” indipendente, ma mancano ancora le basi politiche, finanziarie e industriali per trasformare questa visione in realtà.

Secondo il Generale Hodges, “il problema della mobilità militare deve essere risolto, con o senza gli Stati Uniti”. Ma la domanda resta: l’Europa sarà davvero in grado di garantire la propria difesa autonoma, oppure continuerà a investire in una strategia basata su alleanze sempre più fragili?

I NUMERI SPAVENTANO

Secondo una recente analisi di Bruegel, difendere l’Europa senza il supporto degli Stati Uniti richiederà un impegno straordinario in termini di risorse e coordinamento. La minaccia di un attacco russo a un Paese dell’UE entro i prossimi dieci anni è considerata concreta da molte intelligence occidentali. Con un esercito rafforzato dall’esperienza in Ucraina e una produzione bellica in crescita, Mosca rappresenta una sfida imponente. Per colmare il vuoto lasciato da circa 300.000 soldati americani, l’Europa dovrebbe creare almeno 50 nuove brigate meccanizzate e corazzate, puntando su una deterrenza credibile e autonoma.

Il problema, però, non è solo numerico. La frammentazione delle forze armate europee, suddivise in 29 eserciti nazionali privi di un comando unificato, riduce drasticamente l’efficacia operativa. Mentre le truppe Usa intervengono con unità coese e supportate da capacità strategiche avanzate (avionica, spazio, intelligence), l’Europa soffre per la mancanza di strumenti comuni e di una leadership militare autonoma. Come sottolineato da Rand, senza un rapido rafforzamento del coordinamento e della standardizzazione, il rischio è quello di moltiplicare i costi senza ottenere una reale capacità di deterrenza.

Sul fronte industriale, l’Europa dovrebbe aumentare drasticamente la produzione di mezzi e munizioni: circa 1.400 carri armati, 2.000 veicoli da combattimento e 700 pezzi di artiglieria, oltre a garantire scorte adeguate per sostenere 90 giorni di combattimenti ad alta intensità. Servirà inoltre potenziare la produzione di droni e missili, in linea con le capacità russe. Secondo le stime di Bruegel, la spesa per la difesa europea dovrà salire almeno al 3,5% del Pil (ma Trump spinge per il 5%), con un incremento di 250 miliardi di euro annui, finanziati inizialmente tramite debito comune e nazionale. Fondamentale sarà un approccio europeo integrato agli appalti, per ridurre i costi e velocizzare la produzione, seguendo l’esempio di recenti commesse come quella della tedesca Helsing per 6.000 droni destinati all’Ucraina. Ma al momento siamo lontani, come mostrano ad esempio le problematiche che sta vivendo Mbda – consorzio UK, Francia, Italia – sulla riallocazione logistica della produzione missilistica, mentre il tempo stringe e pochi Governi stanno trovando il coraggio politico di preparare i propri cittadini al rischio imminente di guerra in arrivo dall’Est.

RIFERIMENTI

 

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