La Nato avrà bisogno di 49 brigate in più e nuove armi secondo i nuovi piani di difesa.
È quanto emerso dai documenti dell’Alleanza visionati dal quotidiano tedesco Die Welt secondo cui la Nato prevede un aumento delle brigate pronte al combattimento da 82 a 131 entro il 2031 e un potenziamento della difesa aerea:
Per contrastare la minaccia al Fianco Est proveniente dalla Russa, la Nato deve rafforzare la sua potenza militare. I piani prevedono, secondo i rapporti svelati dal giornale, una serie di richieste aggiuntive per rinforzare i “Requisiti minimi di capacità” stabiliti dal generale Usa Christopher Cavoli e dall’ammiraglio francese Pierre Vandier, i due più alti comandanti militari dell’Alleanza. Mentre nel 2021 si ritenevano sufficienti 82 brigate da combattimento, in futuro dovrebbero essercene 131. Si tratta di un aumento di 49 unità, ciascuna delle quali è composta da circa cinquemila militari.
Ecco il parere degli esperti sentiti da Startmag: Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali (Cesi) e consigliere del ministro della Difesa Guido Crosetto, e Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dell’Istituto Affari Internazionali (Iai).
“IRREALIZZABILE” SECONDO IL PRESIDENTE DEL CESI
“Mi sembra una cosa se non impossibile, irrealizzabile, ho difficoltà a immaginarla”, esordisce a Startmag Margelletti “E spiego perché: un numero così rilevante di soldati implicherebbe probabilmente per molti paesi della Nato il ritorno alla leva. Come numeri, perché sono migliaia e migliaia di persone”. “Non solo ci vuole un numero gigantesco di soldati – prosegue il presidente del Cesi – Ma tutto questo va sostenuto economicamente, quindi stravolgerebbe il budget. E non parliamo più del 2%, parliamo di cifre sicuramente molto più elevate. Non ho visto questo documento, ma sulla base delle informazioni riportate dalla stampa mi sembra una cosa enorme, sinceramente enorme”.
“Con i budget che i paesi Nato mettono a disposizione non so come possa essere neanche lontanamente realizzabile” ha commentato Margelletti. Non solo raggiungere ma andare oltre l’obiettivo del 2% del Pil da destinare alle spese della difesa è qualcosa su cui lavorerà il neo Segretario generale dell’Alleanza Atlantica Mark Rutte. “Una cosa è quello che si desidera, quello che sarebbe ottimale, e un’altra cosa è quello che si può fare”, chiosa il presidente del Cesi.
LA RICHIESTA DI NUOVI MEZZI
Inoltre, nel rapporto è indicata la necessità di intervenire in termini di attrezzature, in particolare di difesa aerea, munizioni, armi di precisione a lungo raggio, nonché logistica e trasporti. Si prevede che il numero di unità antiaeree terrestri aumenti da 293 a 1.467, includendo nel computo sistemi come Patriot, Iris T-SLM, Skyranger e protezione a corto raggio.
“Ecco questo è totalmente in linea con le indicazioni della Nato”, sostiene Margelletti: “Purtroppo abbiamo imparato, dico purtroppo perché c’è la guerra in Ucraina, che la difesa aerea è tornata a essere centrale e quindi c’è la necessità di avere un numero di sistemi, di reparti in grado di farlo modificare.”
INDIVIDUARE INNANZITUTTO IL CONTESTO
Innanzitutto, il piano trapelato della Nato “va collocata nel contesto”, spiega Marrone: “Da febbraio 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina, su mandato degli stati membri le strutture Nato hanno rivisto la postura militare, i piani di difesa e quindi i requisiti in termini di qualità e di quantità delle forze a disposizione. Il trend è chiaro, serve più quantità mantenendo una certa qualità. Questo vuol dire passare a prepararsi per affrontare una guerra di ampia portata, di larga scala e di lunga durata, che è diverso dall’impianto, diciamo, nel periodo anni 90, 2000-2010, di missioni di guerra al terrorismo piuttosto che di peacekeeping”.
“Quindi in questo contesto – prosegue l’esperto dello Iai – vanno interpretati i numeri rivelati dal Die Welt, che sono molto elevati, perché fissano in un orizzonte di medio-lungo periodo, non è qualcosa nell’arco di mesi, ma nell’arco di anni, una nuova normalità per la Nato che è quella di dissuadere e deterrere un attacco russo, di fronte alla Russia che l’attacco l’ha già compiuto in Ucraina, quindi ha dimostrato di poter soffrire anche le perdite di due anni e mezzo di conflitto molto sanguinoso come è quello in Ucraina.”
IL NUMERO DELLE BRIGATE
In particolare, “il numero delle brigate deve far riflettere perché è quello che richiede un maggiore arruolamento e mantenimento in servizio di personale” spiega Marrone. “Ora, c’è una fascia di Paesi scandinavi dell’Europa orientale che non ha mai tolto la leva oppure l’ha reintrodotta. Ci sono eserciti professionali come in Italia e in Francia che hanno bisogno di aumentare le proprie unità, ma di aumentarle in modo mirato. Dunque non per compiti come sicurezza interna, come Strada sicure, ma per compiti di combattimento”. È in quest’ottica che vanno interpretate “le indicazioni delle strutture Nato anche abbastanza dettagliate sul numero di brigate, sui sistemi e quant’altro”
PERCHÉ NON CI SARÀ UN’IPOTESI DI LEVA OBBLIGATORIA SECONDO L’ESPERTO IAI
Dunque tornerebbe in auge l’ipotesi ventilata di una leva obbligatoria nel nostro paese?
“Assolutamente no” assicura l’esperto dello Iai argomentando “per tre ordini. Uno, che per i paesi baltici o scandinavi fa parte del contratto sociale di quei paesi che sono usciti dalla dominazione sovietica (i baltici), o l’hanno vista molto vicina, come la Finlandia, e quindi per la loro popolazione è acquisito il dato che bisogna avere quella leva obbligatoria per difendersi dalla Russia”. Nei paesi del lato occidentale che hanno vissuto la guerra fredda dall’altro lato, dal lato fortunato della barricata e a distanza dalla linea del fronte, il contratto sociale è cambiato e non è qualcosa che si inverte facilmente quindi questo è il motivo principale” spiega Marrone.
Dopodiché, “il secondo motivo, ma altrettanto importante, è che aumentando in modo mirato le unità di un esercito professionista come quello italiano si ha un risultato in termini di efficacia per la deterrenza e difesa molto maggiore che tentando la via della leva obbligatoria”. “Perché ci vuole tempo per un addestramento adeguato, che deve fare conti con la complessità tecnologica dei sistemi d’arma di oggi, anche quelli terrestri” sottolinea Marrone evidenziando che “Deve passare attraverso esercitazioni per manovre ad alta intensità, interforze e multinazionali.
Infine, “il terzo elemento è che ci è voluto tempo per avere un modello professionale abbastanza efficace, abbastanza efficiente. Rimetterlo in discussione con un ritorno alla leva significa rinunciare a quello che di buono si è ottenuto per un punto interrogativo che alla luce dei punti di cui sopra è un punto interventivo che non migliora la situazione” sostiene l’esperto dello Iai adducendo che “Quindi io sono molto convinto che i discorsi sull’eventuale ritorno all’area obbligatoria non hanno sostanza, non hanno realismo in Italia”.
NECESSITÀ DI RIPARTIRE LE RISORSE IN MANIERA EFFICACE
Senza dimenticare “che mentre tutti gli altri paesi europei hanno aumentato il bilancio della difesa negli ultimi tre anni, l’Italia non l’ha fatto: è rimasto stazionario circa sull’1,5% dopo una curva molto lenta di aumento dal 2014 e poi. Quindi le risorse devono aumentare, perché l’unico 1,5% non è sufficiente”, sostiene il responsabile del programma Difesa dello Iai.
Ma quelle che siano le risorse devono essere ripartite nel modo più efficace, secondo Marrone.
“E il modo più efficace oggi, con queste risorse, – mette in chiaro l’esperto Iai – è da un lato ammodernare equipaggiamenti. Come per esempio, una nuova linea di carri armati: una nuova linea non l’ammodernamento dell’Ariete, per intenderci. Dall’altro, investire nella manutenzione, pezzi di ricambio, scorte di munizioni, logistica, cioè tutto quello che serve per sostenere un impiego su larga scala e prolungato di questi mezzi, diverso da quello in Libia, in Afghanistan o nei Balcani. Se si è a corto di pezzi di ricambio, di manutenzione, di logistica o di munizioni, la macchina si inceppa e quindi non serve avere molte unità in più se quando le si può sostenere in questi tipi di operazioni”.
SOPPERIRE A DECENNI DI SOTTINVESTIMENTO
Come già detto, nel rapporto trapelato è anche indicata la necessità di intervenire in termini di attrezzature, in particolare di difesa aerea.
“Poiché negli anni 90 e 2000 non c’era questa minaccia russa all’Europa, si sono prioritizzate altre capacità, ad esempio i trasporti lontani come l’Afghanistan, piuttosto che l’Africa o l’Iraq. Quindi ci sono decenni di sottoinvestimento su capacità che si sono molto ridotte”, fa notare l’esperto dello Iai.
“Oggi c’è l’urgenza di offrire un ombrello di sicurezza per un territorio europeo dei paesi Nato che va dalla Scandinavia al Mar Nero con l’ingresso di Svezia e Finlandia, quindi è molto più grande dell’area della Guerra Fredda, da Danzica a Stettino e da Trieste a Stettino. È molto più ampio il territorio europeo da proteggere”.
LA COMPLESSITÀ DELLA DIFESA AEREA E MISSILISTICA INTEGRATA
Inoltre, oggi “Sono molti più paesi con e ci sono assetti di diverso avanzamento tecnologico e generazioni integrali, quindi è molto più complessa e più ampio la difesa aerea e missilistica integrata”, rimarca Marrone.
“Sicuramente c’è necessità di maggiori sistemi di difesa passati a terra, i sistemi menzionati da Welt, ma anche di un cambio di approccio per abbattere la minaccia in modo costo-efficace, in modo sostenibile. Quindi anche con misure di guerra elettronica o di altra natura. Cioè che non costano quanto un missile Patriot che non può essere impiegato su larga scala in modo continuativo per abbattere un drone che costa un centesimo del missile che viene usato per abbatterlo. In questo contesto poi è giusto dire che servono più mezzi X,Y, Z” conclude Alessandro Marrone.