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Come deve cambiare la Sanità. Parla Scolozzi (Kpmg)

Conversazione di Start Magazine con Donato Scolozzi, Partner di KPMG HealthCare & Lifescience.

A quasi un anno dal primo lockdown, l’Italia rischia di tornare in zona arancione. Ma questo sembra l’unica costante dell’ultimo anno, un anno nel quale è cambiato tutto. A partire dal nostro atteggiamento collettivo verso la sanità pubblica.

Negli ultimi 12 mesi abbiamo celebrato come eroi medici ed infermieri, imparato a conoscere eccellenze come lo Spallanzani di Roma o il Sacco di Milano. Siamo anche stati costretti a fare i conti con le debolezze strutturali di un sistema sanitario nazionale che ha mostrato, insieme alle proprie potenzialità, lacune ed arretratezze.

Come deve cambiare il sistema sanitario nazionale per vincere le sfide che dovrà affrontare nel modo post pandemico? Come farsi trovare preparati alla prossima emergenza, come tornare a garantire accessibilità alle cure e prevenzione, in un ambiente sicuro?

Start Magazine lo chiesto a Donato Scolozzi, Partner di KPMG HealthCare & Lifescience.

La speranza di riuscire a lasciarci la crisi pandemica alle spalle è in massima parte legata ai vaccini. Per la prima volta nella storia, una ingente disponibilità di risorse pubbliche ed il lavoro coordinato dei principali centri di ricerca mondiale ci hanno garantito molti candidati vaccini in circa 18 mesi.

I vaccini saranno quasi certamente uno degli strumenti più importanti per lasciarsi alle spalle questa crisi. Penso sia utile sottolineare come l’esperienza della produzione del vaccino sia un esempio di intelligenza collettiva, di open innovation, di come anche grazie alle piattaforme digitali l’uomo nel XXI secolo sia in grado di produrre risultati eccezionali che fanno fare un salto di qualità all’Umanità. Ora la sfida è quella di distribuire il vaccino di renderlo accessibile come un bene pubblico universale. Questa è la sfida replicare nella campagna di vaccinazione lo stesso pensiero agile e innovativo che ci ha portato al vaccino. Può essere una grande occasione per sperimentare modalità innovative e serve una classe dirigente all’altezza delle sfide che abbia sempre come priorità l’interesse comune e non quello egoistico nazionale. Siamo convinti che l’UE possa essere un acceleratore di questi processi. Pragmaticamente credo che essendoci differenti stakeholder a fornire il vaccino all’intera popolazione, gestire un programma vaccini sia complesso, richiede il coordinamento di molte risorse e di fatto un Centro di Comando che assicuri l’esecuzione, la gestione rapida dei problemi ed il monitoraggio dei progressi. Inoltre, i diversi fornitori hanno vincoli di capacità produttiva evidenti. Un programma vaccinale di successo richiede supporto ai fornitori nell’adattarsi al cambiamento, valutando insieme le lacune di capacità produttiva ed intervenendo ad esempio sulla formazione della forza lavoro, o sui nuovi processi di produzione. Nelle prossime settimane sarà sempre più importante capire quante dosi avremo ed entro quando le avremo, come funzionerà la logistica ed il tracciamento delle dosi disponibili, quante persone accetteranno di essere vaccinate. Disporre dei vaccini, probabilmente, non sarà sufficiente. Per questo pensiamo sia importante non sottovalutare l’importanza di migliorare la diagnostica ed interrogarsi sull’appropriato utilizzo delle terapie complementari ai vaccini disponibili per la cura di questa patologia.

Che insegnamento dobbiamo trarre da questo accadimento senza precedenti? Servono più soldi, una strategia più coordinata o una maggiore collaborazione tra pubblico e privati?

Faccio una premessa: se questa crisi fosse arrivata nel 2008 quando in Italia avevamo circa 4 miliardi di euro di differenza tra quanto eravamo disposti a spendere per la sanità (il Fondo Sanitario Nazionale) e la spesa reale, forse oggi sarei stato meno ottimista rispetto al futuro di mia figlia. Non che non ci sia da esser preoccupati, ma oggi pochi o molti che siano i soldi che si vuole investire nel settore, in Italia quei soldi abbiamo imparato a farceli bastare. Servono più soldi, assolutamente. Negli ultimi anni non si è mai trovato lo spazio per aumentare il Fondo Sanitario Nazionale perché gli italiani ed i loro rappresentanti hanno preferito manovre di trasferimento diretto di potere di acquisto alle famiglie. Speriamo che oggi sia passato il messaggio che ci si salva solo se lo si fa insieme. Servono più soldi, è vero, ma non basta. Autorevoli esperti del settore ritengono che essendo cambiata società, quadro epidemiologico, tecnologia sanitaria, scienza medica e aspettative della popolazione, non si possa più “lasciare il sistema solo a rotolare su se stesso”. Serve una stagione di riforme, è vero, ma dobbiamo farlo con la modestia di chi sa che il mondo non ha una ricetta da adottare e adattare al contesto nazionale e che, come al solito, i trade off di policy sono delicati e non possono essere affrontati prevalentemente sull’imprinting emotivo consegnatoci dal COVID-19, portandoci a investire prevalentemente nei settori che sono stati nell’occhio del ciclone, dimenticando lo spettro vasto delle patologie e dei setting sanitari. In questo scenario potremmo ipotizzare di sfidare le regioni (tutte anche le regioni del centro sud) a proporsi quale locomotiva del SSN perché possano divenire i cantieri per preparare una riforma capace di approfittare delle innovazioni di prodotto che arrivano dall’industria (quali ad esempio CAR-T, terapie agnostiche oncologiche, intelligenza artificiale, multicanalità e robotica) creando quella saldatura necessaria tra cura del singolo e innovazione organizzativa a garanzia della sostenibilità di lungo periodo. Perché questo avvenga serve anche una saldatura tra pubblico e privato. Per questo diciamo spesso che l’innovazione deve essere “inclusiva” e mettere “per tempo” allo stesso tavolo l’industria e le istituzioni e, perché no, anche i pazienti. Gli strumenti ci sono, il partenariato pubblico privato, serve il coraggio di usarli.

Quindi lei è un fan dei Piani di Rientro? Pensa che abbiano rappresentato per il nostro paese un passaggio importante per la tenuta del Sistema Sanitario Nazionale.

Le faccio una premessa: io personalmente e professionalmente devo molto all’esperienza dei Piani di Rientro. Lascio a voi fare la tara. Se mi sta chiedendo se con Piani di Rientro facciamo riferimento a quei professionisti che hanno dedicato anni ai Piani di Rientro, se con Piani di Rientro facciamo riferimento a quella squadra di Civil Servant, la mia risposta è Sì. Poi però, mettendo da parte il trasporto personale, pensiamo si tratti oggettivamente di una delle più interessanti operazioni di sistema svolte dal nostro paese. Al netto di alcune realtà regionali, dove però non ci sembra ci siano dati che dimostrino che la sanità funzionasse prima dei Piani di Rientro, se guardiamo i due indicatori di riferimento contenuti nelle norme (i disavanzi regionali e la griglia LEA) vi è stato un miglioramento significativo su entrambi. Il disavanzo è passato da 3,710 miliardi a 212 milioni e, per quanto riguarda la griglia LEA, pressoché tutte le regioni si collocano sopra al valore soglia di 160 punti. Aggiungo poi che basterebbe guardare senza pregiudizi a cosa sta succedendo in questi giorni in regione Lazio per avere la prova che quella cura, di cui avremmo volentieri fatto a meno (se il paese ce lo avesse concesso), è stata utile. Penso sia abbastanza evidente che regione Lazio fino ad ora abbia gestito con la necessaria flessibilità le due ondate pandemiche che abbiamo alle spalle sia l’avvio ed il successivo allargamento della vaccinazione di massa. Certo abbiamo ancora tanto da fare, ma di sicuro, lo ripeto, oggi siamo più forti rispetto al 2007.

La crisi pandemica ha fatto emergere punti di criticità in sistemi sanitari tradizionalmente considerati solidi, ed il grande assente è spesso stato la medicina territoriale. Bisogna tornare a curare i malati fuori dagli ospedali?

I malati, nella loro fase acuta vanno curati in ospedale, e per farlo gli ospedali che abbiamo nel nostro paese vanno ricostruiti, ed anche in fretta. Ciò che dobbiamo prevenire sono i ricoveri di quei pazienti che arrivano in ospedale “cronicamente acuti”. Se ad un paziente viene diagnosticata una patologia cronico degenerativa, dal momento della diagnosi ogni ricovero deve essere considerato una “sconfitta” per il Servizio Sanitario Nazionale. Se vogliamo che questo accada dobbiamo disporre di strumenti informativi capaci di evidenziare queste “sconfitte” per poterle affrontare. Per quanto riguarda la “medicina territoriale” ritengo che stia ormai diventando una “buzzword”. La ricetta giusta per tutti i mali. Esistono patologie per cui è superficiale parlare solo di “medicina territoriale” dato il numero limitato di casi (patologie a bassa prevalenza e bassa incidenza) e l’elevato livello di specializzazione necessario per trattarle, così come esistono patologie che per prevalenza ed incidenza potrebbero essere trattate più vicino a casa del paziente ma non è detto che ciò che oggi esiste sul territorio sia la risposta di cui c’è bisogno. Suggerirei di smettere di parlare di questa (quasi ideologica) dicotomia tra ospedale e territorio ed iniziare a lavorare su nuovi modelli di servizio che, con un occhio alla sostenibilità, cerchino, con tutte le risorse intellettuali possibili, di approfittare dell’innovazione tecnologica (intelligenza artificiale, vital sign monitoring, robotica, eccetera).

In un primo momento sembrava che in Europa formassimo pochi infermieri e medici, è davvero così?

Nel 2019 Mark Britnell (ex responsabile della divisione Global Health di KPMG) ha pubblicato un libro dal titolo “Human: Solving the global workforce crisis in healthcare”. Il tema affrontato da Mark era chiaro e lo abbiamo rappresentato a tutti i nostri clienti: entro il 2030 a livello mondiale mancheranno circa 15 milioni di operatori sanitari ovvero un quinto della forza lavoro necessaria per mantenere in vita i sistemi sanitari. Sia secondo il rapporto OASI sia secondo quanto emerge dai dati Eurostat, in Italia il rapporto medico-abitanti, pari a 4 ogni 1.000, è in linea a quello osservato in Nazioni comparabili. Al contrario, il rapporto infermiere-abitanti, pari a 6 ogni 1.000, è meno della metà del rapporto delle Nazioni comparabili (13 ogni 1.000), pur presentando un profilo epidemiologico simile. Inoltre, le professioni sanitarie di cui c’è più bisogno non sembrano essere attrattive per i giovani italiani: solo 1 ogni 5.000 abitanti ottiene una qualifica riconosciuta per diventare infermiere, un numero nettamente inferiore rispetto alla media europea. Siamo il Paese con la più alta percentuale di medici oltre i 55 anni (53,1%) ovvero prossimi all’età pensionabile ed un rapporto infermieri-medici che in media nazionale è di 2,5, ma con enormi variabilità interregionali (in Sicilia è 1,8, mentre in Veneto è 3,0). Gli operatori sanitari, dunque, sono pochi e mal distribuiti: le professioni più richieste sono anche quelle meno ambite e spesso viene riportato che le competenze possedute sono disallineate rispetto a quelle richieste. Questo, se da un lato spaventa, dall’altro fa emergere che un ridisegno delle competenze e delle responsabilità è fondamentale per rispondere ad una domanda di salute in cambiamento.

Un altro grande problema è stato quello del tracciamento. E sembra una contraddizione, in un periodo storico in cui ogni nostra azione si trasforma in dati. Perché la rivoluzione digitale sembra essere ancora così “lontana” in sanità? Siamo ancora fermi al “fascicolo sanitario digitale”?

Nel 2007, quando fu presentato il primo iPhone, cambiò la modalità con cui si interagisce con la tecnologia. Chi avrebbe immaginato allora che quegli oggetti nelle nostre tasche sarebbero diventati una parte così importante nella raccolta dei dati? Il nostro rapporto con la tecnologia sta cambiando radicalmente il nostro sistema sociale, culturale, economico e forse nel tempo cambierà inesorabilmente anche il nostro sistema sanitario. Sistemi di cartella clinica elettronica, portali e app sanitarie per smartphone combattono per adattarsi ad una nuova realtà̀ in cui algoritmi e piattaforme intelligenti giocano da padroni. Quando i pazienti avranno il controllo totale dei loro dati sanitari tutto sarà INTERconnesso (ovvero i sistemi di organizzazioni diverse saranno in grado di condividere informazioni), mentre i tradizionali sistemi sanitari saranno ancora solo INTRAconnessi. In questo scenario, mentre molti osservatori speculano sulle questioni di privacy e sicurezza, non escludiamo che molti dei giganti della tecnologia (ad es. Apple, Amazon e Google) saranno conformi al GDPR più̀ velocemente di Ministero della Salute, Regioni ed ASL. Se è vero, come credo, ciò che sottende l’affermazione “data is the new oil”, allora dobbiamo affrontare seriamente questo tema anche in sanità. Serve una politica economica del dato (anche sanitario) e della sua profilazione algoritmica come variabile strategica non solo per prendersi carico dei nostri genitori ma anche per il futuro dei nostri figli, in questo paese.

In tanti si stanno interrogando su come investire le risorse per la sanità che l’Europa metterà a disposizione dell’Italia. Quali devono essere a suo giudizio le direttrici per spendere in maniera efficiente queste risorse?

In passato il SSN ha dovuto trovare con manovre di contenimento le risorse necessarie per finanziare lo sviluppo. Il Recovery Fund ci mette di fronte ad una prospettiva nuova. Finanziata la spesa corrente per il personale, dovremmo ipotizzare di investire la prevalenza di questi fondi in conto capitale. Nel farlo, pensiamo al fatto che questo paese (come molti paesi del Mediterraneo) abbia sottovalutato spesso il valore degli asset immateriali (software, database, reingegnerizzazione di processi e sviluppo delle competenze). Se da un lato è indubbio che sia necessario dedicare una parte importante di queste risorse al rinnovo dei punti di erogazione (ospedalieri e non) non facciamo l’errore di sottovalutare il valore degli intangible asset. Siamo convinti, però, che a determinare quanta parte di questi fondi verrà destinata alla sanità sarà la capacità del settore di progettare e spendere nei prossimi 5 anni. Serve il coraggio di avviare dei progetti coraggiosi. Questi progetti devono avere l’obiettivo di introdurre un cambiamento nelle nostre aziende sanitarie. I tempi che stiamo vivendo, caratterizzati dalla minaccia di una pandemia, fanno emergere ancor di più l’importanza strategica del settore: da questo comparto ormai è evidente dipende non solo la sicurezza e la salute di tutti i cittadini ma anche la ripartenza e la futura solidità economica del nostro Paese. Pensiamo che partecipare a questi progetti sia la più grande opportunità di formazione per le risorse umane di un’azienda. E pensiamo che per farlo servono programmi di sviluppo a livello locale che mettano insieme attori pubblici e privati per la realizzazione di obiettivi congiunti. Aggiungo un’ultima considerazione. La competitività del nostro paese non si valuta solo dai beni che saremo capaci di produrre (pensate al vaccino italiano) ma anche dai capitali che saremo in grado di attrarre. La sfida globale tra le nazioni si gioca, credo, su questo campo. Gli investitori esteri apprezzano l’Italia per la qualità delle risorse umane e per la solidità del sistema bancario e finanziario. Io penso che ci si debba dare l’obiettivo di far diventare la sanità, insieme a moda e lusso, manifattura ed immobiliare, uno dei settori di interesse per i mercati finanziari.

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