Un passo avanti e uno indietro, annunci e ripensamenti. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump prende tutti in contropiede e quello che ha detto ieri oggi è già storia.
Se lo stop di 90 giorni dei dazi Usa ha fatto tirare un sospiro di sollievo all’Unione europea e la possibilità che dopo pc e smartphone anche ad auto e componenti venga concessa una tregua temporanea, il settore farmaceutico – finora risparmiato ma comunque minacciato – sembra il prossimo pronto a finire sulla graticola.
Gli Stati Uniti infatti hanno avviato indagini sulla sicurezza nazionale che potrebbero portare a specifici dazi, probabilmente al 25%, per il comparto. Ma d’altra parte, ormai si sa, l’imprevedibilità è il suo mestiere e non resta che aspettare e provare a quantificare l’impatto.
LE INDAGINI SULLA SICUREZZA NAZIONALE
Secondo quanto riferito dal Financial Times, nell’ambito delle indagini sulle implicazioni per la sicurezza nazionale relative alle importazione, gli Stati Uniti hanno intenzione di esaminare anche i prodotti farmaceutici, i loro ingredienti e i prodotti derivati.
L’indagine, avviata dal segretario al Commercio Howard Lutnick, riguarda sia i prodotti farmaceutici generici e di marca finiti sia i fattori di produzione critici come i principi attivi.
Sebbene infatti molte delle maggiori case farmaceutiche siano statunitensi, che si tratti di principi attivi o di produzione, sono intrinsecamente dipendenti da Europa, Irlanda in particolare per il suo regime fiscale favorevole, e Asia, con Cina e India di vitale importanza anche per l’Ue. Lo stesso discorso vale anche per l’industria biotecnologica.
“Annunceremo a breve un’importante tariffa sui prodotti farmaceutici”, ha dichiarato Trump la scorsa settimana durante una cena del Comitato Nazionale Repubblicano del Congresso. “E quando lo sapranno, lasceranno la Cina. Lasceranno altri posti perché devono vendere – la maggior parte dei loro prodotti è venduta qui e apriranno i loro stabilimenti ovunque”.
DA CHI E QUANTO DIPENDONO GLI USA NEL PHARMA
Come visibile in due grafici di Politico, elaborati sui dati di un report della Casa Bianca di giugno 2021, gli Stati Uniti producono il 27% dei principi attivi (Api) e il 48% dei dosaggi finiti (Fdf) se si considerano i medicinali in generale, contro il 13% dei principi attivi e il 37% dei dosaggi finiti se si parla di generici.
Per quanto riguarda i farmaci in generale dipendono invece per il 25% dei principi attivi e il 18% dei dosaggi finiti dall’Unione europea, per il 19% Api e il 9% Fdf dall’India, per il 13% Api e il 6% Fdf dalla Cina. Seguono America Latina, Canada e resto del mondo.
Circa i farmaci generici, gli Usa dipendono per il 27% dei principi attivi e per il 16% dei dosaggi finiti dall’Unione europea, per il 29% Api e il 26% Fdf dall’India, per il 16% e per l’8% dalla Cina. Seguono poi America Latina, Canada e resto del mondo.
Inoltre, la lobby dei generici Medicines for Europe afferma che la propria analisi dei fornitori di principi attivi per il mercato statunitense ha dimostrato che per quasi 700 di questi approvati negli Stati Uniti, l’Europa è l’unico fornitore.
FARMACI E PRINCIPI ATTIVI CHE MANCANO NEGLI USA
Sempre dall’analisi di Politico emerge che gli Stati Uniti si affidano a produttori di farmaci stranieri per i principi attivi dei 47 antivirali più utilizzati per il 97% del loro fabbisogno, dei 111 antibiotici più prescritti per il 92%, delle 100 medicine più utilizzate per l’83% e dei 52 farmaci anti-Covid per il 75%.
I NUMERI DELL’IMPORT-EXPORT USA-UE
Prendendo poi in considerazione gli scambi tra Stati Uniti e Unione europea, i dati Eurostat mostrano che nel 2024 l’Ue ha esportato oltreoceano 170,8 milioni di kg di prodotti farmaceutici contro i 70,9 milioni di kg esportati dagli Usa nell’Unione.
Sempre secondo Eurostat, nel 2023, le esportazioni di farmaci e prodotti farmaceutici dell’Ue verso gli Stati Uniti ammontavano a circa 90 miliardi di euro e nel 2024 sono stati addirittura la principale esportazione dei Ventisette negli Usa, per un valore dichiarato di 127 miliardi di dollari.
FOCUS IRLANDA
I dazi sui prodotti farmaceutici, secondo Bloomberg, avranno un effetto maggiore sull’Irlanda, il cui surplus commerciale di 54 miliardi di dollari (47,6 miliardi di euro) con gli Stati Uniti ha contribuito a scatenare l’ira di Trump.
Lo squilibrio, fortemente appesantito dall’industria farmaceutica, deriva dal regime fiscale favorevole del Paese e dalla forza lavoro altamente istruita, spiega la testata economica. Stando infatti a un’analisi di TD Cowen, le aziende farmaceutiche statunitensi, tra cui Eli Lilly e Pfizer, gestiscono quasi due dozzine di fabbriche in Irlanda che spediscono negli Stati Uniti.
UN’IMPRESA QUASI IMPOSSIBILE
L’idea che i dazi costringano le case farmaceutiche a spostare o ad aumentare i loro impianti di produzione negli Stati Uniti è già stata presa in considerazione da molti nomi delle Big Pharma, da Johnson & Johnson a Eli Lilly, da Astrazeneca a Gsk. Tuttavia, non si tratta di operazioni realizzabili dalla sera alla mattina. Motivo per cui i produttori hanno chiesto che i dazi vengano almeno introdotti gradualmente.
“La produzione nell’industria farmaceutica è soggetta a vari vincoli normativi, quindi ci può volere del tempo prima di poter spostare la produzione da un Paese all’altro”, ha detto a Politico Justine Fassion, avvocato specializzato in commercio internazionale presso Sidley.
Secondo Marta Wosińska, senior fellow del Brookings Institute, la costruzione di un impianto di produzione richiede generalmente dai tre ai cinque anni, la maggior parte dei quali è legata al processo di autorizzazione locale per le utenze, lo smaltimento e altri problemi della comunità.
Senza dimenticare che è un passo estremamente costoso e che potrebbe diventarlo ancora di più se si considerano i dazi al 25% sull’acciaio, fondamentale per le costruzioni industriali. “A nostro avviso, non esiste una soluzione rapida per le aziende esposte – ha confermato David Risinger, analista di Leerink Partners -. La ridefinizione della produzione richiederebbe anni e sarebbe molto costosa”.
I DUBBI DEGLI ESPERTI
Proprio a causa di queste difficoltà molti esperti ritengono che non ci sarà l’esodo dall’estero auspicato da Trump. Ciò che effettivamente incoraggia le aziende a trasferirsi non sono i dazi per Ned Hux, partner fiscale del settore farmaceutico e delle scienze della vita presso PwC.
“Incentivi fiscali mirati, approvazioni normative semplificate e appalti pubblici prioritari potrebbero rendere più attraente e competitiva la produzione con sede negli Stati Uniti”, ha spiegato, aggiungendo che tali misure potrebbero assumere la forma di detrazioni fiscali, aliquote fiscali più basse sull’attività produttiva, crediti d’imposta e finanziamenti a basso interesse per la produzione nazionale.
ING ha invece osservato che la produzione negli Stati Uniti comporterebbe un aumento dei prezzi, in quanto i costi di manodopera e di produzione sono più elevati, per esempio, di quelli indiani.
“Gli Stati Uniti da soli faranno fatica a costruire una produzione competitiva e un’autonomia strategica – ha dichiarato il suo direttore generale, Adrian van den Hoven -. L’effetto a catena dei dazi sarà quello di far lievitare ulteriormente i costi per i pazienti americani”. Già previsti senza l’imposizione di dazi e a cui va aggiunto anche il rischio di carenze.
LE RICADUTE SULLA RICERCA E I POSTI DI LAVORO
Inoltre, se la scelta è tra farsi carico dei costi dei potenziali dazi o aumentare i prezzi dei farmaci in quello che è già il mercato più costoso del mondo, i produttori potrebbero dover fare scelte obbligate come sacrificare la ricerca o tagliare posti di lavoro: “Dobbiamo sostenere il costo delle tariffe e fare dei compromessi all’interno delle nostre aziende – ha detto l’amministratore delegato di Eli Lilly Dave Ricks -. In genere si tratta di ridurre il personale o la ricerca e sviluppo e prevedo che la ricerca verrà prima di tutto. È un risultato deludente”.