Tutto ha inizio il 18 novembre 2020, durante un volo rutinario sulla zona sud est dello stato americano dell’Utah, nel deserto del Mohab, condotto a bordo di un elicottero Airbus H125 operato dal Department of Public Safety Aero Bureau e impegnato a tracciare i movimenti della pecora selvatica big horn tipica della zona, per conto dell’Utah Division of Wildlife Resources.
Bret Hutchings, pilota dell’elicottero in questione spiega durante un’intervista concessa a Ksl TV di aver udito uno dei biologi a bordo esclamare improvvisamente: “Wow wow wow, torna indietro! C’è qualcosa di grande lì sotto, dobbiamo darci un’occhiata”.
Il pilota non sa resistere. Un veloce basso passaggio di ricognizione e decide di atterrare nelle immediate vicinanze del misterioso oggetto per osservare da vicino quello che appare come una colonna metallica alta circa quattro metri, incastonata al suolo nel deserto.
“E’ la cosa più strana che abbia mai visto in tutti questi anni di volo” dichiara Bret, inizialmente sembrava forse un pezzo che la Nasa avesse perso per strada ed avvicinandosi sia lui che il crew si rendono repentinamente conto che più che di un artefatto di origine aliena, si tratta probabilmente di un’opera artistica. I rivetti del tipo aeronautico, usati per tenere insieme i pannelli di alluminio non lasciano dubbi. E.T. avrebbe usato tecniche di assemblaggio più sofisticate.
La raccomandazione del Bureau di non cercare di accedere al sito e per chi avesse capito dove si trova di non divulgare l’informazione, non si fece aspettare. Il delicato ecosistema del deserto dell’Utah non avrebbe retto alle orde di ufologi del weekend ed esperti fiutatori del complotto i cui istinti infiammati in maniera irresistibile dalla notizia, avrebbero originato un esodo dalle dimensioni così grandi da renderlo probabilmente capace di generare a migliaia di chilometri di distanza, la combustione spontanea dell’ultimo Dpcm natalizio di Conte.
D’altronde la dichiarazione ufficiale del 24 di novembre sul sito del Bureau of Land Management non lasciava dubbi: “… L’azione di occupare o usare il terreno pubblico senza opportuna autorizzazione, costituisce un’azione illegale, a prescindere dal pianeta di provenienza”.
Ma uno dei grandi vantaggi e delle grandi condanne dell’era informatica, è la velocità alla quale si diffonde l’informazione. Vera, falsa, buona o cattiva poco importa. Ed in questo caso era già troppo tardi.
La “location” era stata individuata e le coordinate pubblicate da “setacciatori dell’internet” senza scrupoli, mentre i primi 4X4 cominciavano ad arrivare sul luogo col loro carico di curiosi in rapido incremento.
Ma la saga del misterioso artefatto era appena al suo inizio.
La notte del 27 novembre, quattro uomini furono osservati avvicinarsi al “monolito” commentando verso un visitatore intento a fotografarlo “spero che tu abbia fatto in tempo a scattare tutte le tue foto”. Immediatamente spingevano la colonna metallica buttandola a terra e la disassemblavano per caricarla su di una carriola scomparendo nel buio borbottando: “e questo è il motivo per cui non si lasciano rifiuti nel deserto”.
Qualche giorno dopo, Andy Lewis e Sylvan Christensen, due giovani residenti dello stato dell’Utah, appassionati di trekking e amanti della natura, postavano un video su YouTube che documentava alcune delle fasi di smantellamento e rimozione della scultura, messa in atto da loro insieme ad altri due amici.
Secondo il gruppo la rimozione è stata effettuata in quanto “esistono chiari precedenti sull’impatto umano (negativo ndr.) e su come condividiamo e standardizziamo l’uso dei terreni pubblici, animali selvatici, piante native e sorgenti d’acqua fresca.” Si sarebbe insomma fermato il pericoloso esodo già ai suoi arbori appena qualche giorno dopo il ritrovamento.
La buona fede del gruppo, non gli ha però impedito di essere l’oggetto di minacce sui social media. Qualche giorno fa infatti, Christensen scriveva su USA Today, giustificando così la sua decisione di chiudere i commenti sul post: “Ho ricevuto minacce di percosse ed anche di morte”.
Nonostante le vicissitudini del “monolito”, non sono mancati certo i cosiddetti “copycats” o tentativi di emulazione. Copie identiche sono già state avvistate in cima alla montagna di Pine in Atascadero, California, una adagiata su di una collina in Romania e proprio oggi il quarto sulla famosa isola di White, lungo la costa sud dell’Inghilterra.
Il mistero – almeno quello del Moab – sembra giungere al suo epilogo quando una meno misteriosa compagine di “stunt artists” dichiara la paternità dell’opera. Basato in Sante Fe, New Mexico,
Il gruppo che risponde al modesto nome di guerre di “The Most Famous Artist” offre persino il servizio “monolith-at-a- service”. Per soli 45,000 dollari un duplicato dell’originale costruito dagli stessi autori, verrà imballato, spedito e consegnato “chiavi in mano” a qualsiasi indirizzo. Civico, rurale o remoto. Installazione inclusa. Consegna da quattro a sei settimane.
Con l’aria che tira quest’anno, forse il tanto atteso “portale” è finalmente a portata di mano.