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unione europea

Verità, bugie e fuffa su Polexit

Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

Si può capire l’entusiasmo con il quale la Commissione europea, i media che le fanno eco e molti “politici” che vivono nell’ombra di Bruxelles, cavalcano il tema del conflitto tra la Polonia e le istituzioni dell’Unione europea in materia di confini tra le giurisdizioni costituzionali degli Stati membri e quella della Corte del Lussemburgo (giusto per memoria, ricordo che il vilain of the story, il premier polacco Mateusz Jakub Morawieck, non contesta in assoluto la primazia della giurisdizione della Corte europea, ma afferma che questa è circoscritta alle materie devolute all’Unione europea, contestandone la “universalità” rivendicata di fatto da Bruxelles).

L’entusiasmo si può capire, dicevo, perché consente alla Commissione di lasciare in ombra la propria drammatica – benché inevitabile – latitanza sul problema forse più acuto dell’Europa di oggi, quello del rincaro energetico che investe un continente mediamente povero di fonti di energia che, spavaldamente, si è posto obiettivi di eliminazione degli idrocarburi più ambiziosi di quelli di ogni altra regione economica del mondo (promemoria per il prof. Barbero: di donne spavalde ce n’è in quantità, basta volgere lo sguardo a Bruxelles e dintorni per accorgersene).

Quanto sinceramente lo “stato di diritto” stia a cuore a Bruxelles lo si può capire dall’insistenza con la quale promuovono l’apertura di negoziati per l’adesione alla Ue di Paesi universalmente invidiati per il rispetto dello stato di diritto quali il Kosovo, l’Albania e la Macedonia del Nord. Quest’ultima in particolare è un luminoso esempio: circa tre anni fa l’adesione della Macedonia del Nord alla Nato fu propiziata da un trattato negoziato segretamente dal premier ellenico Alexis Tsipras con quello macedone Zoran Zaev, per chiudere una lunga controversia sulla denominazione della ex-repubblica jugoslava di Macedonia, all’epoca “Fyrom”. Quando Zaev si accorse di non avere tutti i voti necessari per la ratifica del trattato, non fece altro che disporre la scarcerazione di alcuni parlamentari che al momento si trovavano in stato di reclusione, e fu subito happy end, sotto il benevolo sguardo dell’ambasciatore degli Stati Uniti in Fyrom che, a scanso di sgradevoli sorprese, si era installato per tutta la durata delle votazioni nella sede del parlamento di Skopje. E, anche se i media europei non si occupano giustamente di queste miserie, la Bulgaria è sostanzialmente e felicemente dominata dalle mafie cresciute nel fertile terreno dei servizi segreti dell’era sovietica (ma nelle istituzioni europee segue, senza fare storie, le direttive della maggioranza, soprattutto quando si tratta dei rapporti con la Turchia che tanto stanno a cuore alla Germania, e non sarà qualche mafia locale a fare problema).

Se c’è un tema dove si manifesta clamorosamente l’abisso che separa i principi dello stato di diritto democratico dalla realtà dell’Unione europea è proprio quello dello stato di diritto, che resterebbe l’ossatura dello stato democratico ma, purtroppo, presuppone la trasparente individuazione del “luogo della sovranità”. In concreto, non si può – almeno in termini democratici –  imporre a ciascun Stato membro una uniforme concezione dello stato di diritto se non con la trasformazione dell’Unione in uno stato federale. Ormai, salvo i media e il presidente del Parlamento europeo lo hanno capito tutti e qualcuno ha anche l’ardire di scriverlo apertamente, ma l’argomento rimane tabú e c’è chi, come l’avvocato Cataldo Intrieri, postula addirittura la costituzione di una sorta di “agenzia” dell’Unione europea per lo stato di diritto: “se l’Unione europea vuole sopravvivere bisognerà arrivare a una struttura e a una visione unitaria della giustizia e del diritto, come lo si richiede per l’economia, il lavoro, le istituzioni. Occorre l’equivalente della Bce anche per il diritto, prima che sia tardi”.

In altre parole, qualunque cosa, anche una “banca centrale dello stato di diritto” purché non si parli di stato federale europeo, e in questo atteggiamento c’è una logica ferrea, che è quella di Bruxelles. Perché è scontato che una Federazione Europea non potrà mai nemmeno cominciare a provare a nascere se non tra pochi stati europei, non certo tra ventisette stati tutti “ugualmente” sovrani come Malta e la Germania, ma il potere di fatto – ormai pericoloso – accumulato dalla Commissione negli ultimi anni si basa su due condizioni irrinunciabili. La prima, che il numero degli Stati membri non decresca ma piuttosto aumenti così da ampliare la sfera del potere della burocrazia di Bruxelles. La seconda, che tutti gli Stati membri conservino integra la loro sovranità formale affinché lo svuotamento di quella sostanziale possa proseguire in modo “indolore”, senza farne una questione politica. La posizione della Polonia ha messo in luce (e questo non è accettabile a Bruxelles) che il tarlo di questa strategia non è il sovranismo, populismo o consimili chiacchiere, ma l’intrinseca contraddizione con i cardini dello stato di diritto democratico, che si vorrebbe fare divorziare in modo definitivo dal concetto stesso di sovranità popolare.

In un certo senso, questa ultima sfida della Commissione contro la Polonia potrebbe diventare il più interessante esperimento politico degli ultimi decenni. Si tratta di vedere se riesce a farsi strada un’Europa a due velocità (unico progetto politicamente sensato) o se il complesso nascente dalla naturale affinità di tutti gli organismi tecnoburocratici (tra cui la grande impresa) e la loro inossidabile alleanza con i media, riuscirà a avere ragione del piccolo difetto della democrazia, la sua fastidiosa pretesa di essere un regime politico, facendo del territorio dell’Ue il primo spazio politics-free conosciuto, non governato ma amministrato, secondo il sogno degli antichi comunisti, o forse addirittura del papato nella Lotta per le investiture (in base a certi segni, come l’invocazione ossessiva dei valori e delle norme comuni da parte dei predicatori del verbo di Bruxelles, opterei per la seconda alternativa).

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