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La storia di Storia in Rete e la bizzarra egemonia della destra

Che cosa insegna la chiusura di Storia in Rete sulla presunta invasione della "cultura di destra". L'intervento di Luca Gallesi, editore (edizioni Oaks)

Da qualche tempo, sui giornali e nelle riviste, sui social e soprattutto nei cosiddetti talk-show delle televisioni pubbliche e di quelle commerciali, si fa un gran parlare della presunta invasione dei nuovi barbari, che starebbero occupando tutti posti possibili per dare spazio alla “cultura di destra”, finalmente liberata dalle catacombe dove era stata rinchiusa per decenni dai “nemici” che le impedivano di esprimersi.  Libera, finalmente, di dilagare nell’etere e sulla carta stampata, la “cultura di destra” – secondo la vulgata – adesso non farebbe prigionieri, e, dopo averne sfrattato i legittimi occupanti, starebbe installandosi nelle cattedre universitarie e dilagando nelle redazioni di quotidiani e tivù, per cambiare, finalmente, la versione della realtà a senso unico monopolizzata dalla sinistra.

Al netto del chiacchiericcio da bar e degli strepiti dei finti scandalizzati, la realtà è affatto diversa; tralasciando ogni commento sui nuovi programmi lautamente pagati dalle reti pubbliche e private assegnati ai soliti noti, vale la pena di soffermarsi su un episodio apparentemente minore, la chiusura di uno dei pochissimi periodici indipendenti ancora in distribuzione nelle edicole: “Storia in rete”.

BREVE STORIA DI STORIA IN RETE

Fondata e diretta da Fabio Andriola quasi vent’anni fa “Storia in rete” abbandona la versione cartacea con il numero 198, ricchissimo, come al solito, di notizie e articoli controcorrente, firmati da collaboratori eccellenti, come ad esempio Franco Cardini, autore dell’ultimo editoriale, intitolato La memoria è pericolosa solo quando è selettiva. E selettiva sembra essere anche la memoria dei presunti – o sedicenti – “alleati”, oggi al governo, che invece di agire per salvare una importante voce fuori dal coro, magari con qualche inserto pubblicitario istituzionale o degli abbonamenti da parte delle biblioteche degli innumerevoli enti locali amministrati, fa spallucce, e forse, come qualcuno ha insinuato, si sfrega pure le mani per non avere più tra i piedi una voce autorevole ma indipendente, di “destra”, ma libera e soprattutto colta, senza mai “cadere nelle provocazioni di un becero revisionismo ma facendo le pulci alla narrazione ufficiale”, come ha scritto nel suo blog il vignettista Alfio Krancic, una delle tante autorevoli firme del periodico.

I COLLABORATORI

Negli anni, infatti, “Storia In Rete” ha saputo coinvolgere un ampio spettro di collaboratori, accademici e giornalisti, non tutti “catalogabili” sic et simpliciter “a destra” ma comunque accomunati dal rifiuto preconcetto di rigide categorie storico-culturali. Ecco quindi che si sono alternati sulle pagine del mensile storici illustri come Giuseppe Parlato, Aldo Mola, Paolo Simoncelli, Eugenio Di Rienzo, Giuseppe Pardini; intellettuali come Giano Accame, Marcello Veneziani e Gennaro Malgieri, Aldo G. Ricci, Luciano Garibaldi, Marcello Staglieno, Marco Valle e Pietro Romano oppure raffinati analisti come l’esperto di geopolitica Clemente Ultimo, l’antropologo Massimo Centini o il “meridionalista-ultrà” Pino Aprile. Un elenco imperfetto che rimane tale anche dopo aver ricordato le “sorelle del giallo italiano, Elena e Michela Martignoni, l’appassionata storica delle donne Valeria Palumbo, gli storici Marco Gervasoni, Pierluigi di Colloredo, Enrico Tiozzo, Guglielmo Salotti, Marco Cimmino…

LA DESTRA E LA CULTURA

Il comunicato di Fabio Andriola che annuncia la sospensione lascia intuire dissidi con l’editore, ma conferma la presenza di un solido blocco di abbonati, oltre che di un sufficiente numero di copie vendute in edicola; quindi il problema non è, o non è soltanto, economico, ma culturale.

Altro che “assalto della destra alla cultura”: quando sente parlare di cultura, la destra governativa si gira dall’altra parte, e quella imprenditoriale – che pure c’è – non è mai pervenuta. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti, soprattutto di coloro che stanno “facendo la rivoluzione” con molte chiacchiere e qualche convegno, tra un giro in barca e quattro salti in discoteca.

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