Ai mei tempi – che brutto inizio, lo so, ma sono gli inconvenienti dell’età, e relativa esperienza – capitava di raccogliere lamenti e sfoghi privati di leader autorevoli di partiti al governo contro gli inconvenienti della lottizzazione della Rai. Che pure essi erano accusati di praticare dalle opposizioni, almeno fino a quando anch’esse non furono ammesse ai suoi riti, benefici e costi.
Si lamentavano i signori del governo, chiamiamoli così, di essersi occupati e di occuparsi ancora troppo dei vertici giornalistici – direttori, vice direttori, caporedattori eccetera – dei telegiornali pubblici e simili e troppo poco delle redazioni. Che alla fine risultavano sempre più affollate di giornalisti ostili. I quali erano capaci per numero, ma qualche volta anche per qualità, di condizionare i superiori e rendere loro la vita difficile, persino impossibile.
Nel raccogliere i loro lamenti, a commento di questa o quella cattiva sorpresa riservata da qualcosa di non gradito appena visto a un telegiornale o ascoltato a un giornale radio, io cercavo di consolare i lottizzatori sfortunati dicendo che in fondo ciò che accadeva in Rai si ripeteva, sia pure in forma forse ridotta, nei giornali stampati. E poi anche nelle redazioni televisive private, a cominciare da quelle del Biscione. Dove l’editore e allora mio amico Silvio Berlusconi si accorgeva ogni tanto di qualche “comunista” – diceva – sfuggito all’attenzione sua e degli amici fidati e fedeli al momento dell’assunzione, o selezione.
Quando capitò anche a me di collaborare alla Rai, su proposta – lo confesso – di un consigliere d’amministrazione che mi venne a trovare personalmente nella redazione romana del Giornale fondato e diretto ancora da Indro Montanelli, mi accorsi personalmente della realtà lamentata dai lottizzatori di più vecchia data. E me ne andai, preferendo la tv privata e infine la vecchia, cara carta stampata, quando mi accorsi della fatica di Sisifo nella quale rischiavo di perdermi.
Con il primo di non ricordo più quanti scioperi giornalistici programmati alla Rai contro la cosiddetta Telemeloni, e conclusosi in canti opposti di vittoria fra chi vi ha aderito e chi è stato accusato di averlo boicottato, mi sembra francamente che le cose siano cambiate rispetto – ripeto – ai miei tempi. Lo scrivo con tutti i benefici naturalmente del solito, prudente inventario. Ma col conforto di uno sicuramente più pratico di televisione e di Rai di me come Giovanni Minoli. Che ha avvertito nei due telegiornali su tre andati più o meno regolarmente in onda una piccola replica della caduta del muro di Berlino del 1989.
LA FINE DEL MONOPOLIO SINDACALE DEI GIORNALISTI RAI
Evidentemente le redazioni sono, o sono diventate, più governabili di prima. Non a caso, del resto, è finito il monopolio sindacale dei giornalisti della Rai. La cui maggiore organizzazione non si accorge – cieca come Dio sa rendere quelli che vuole perdere, secondo un vecchio proverbio – di quanto si denudi da sola proclamando l’ottanta per cento della partecipazione ad uno sciopero del quale la stragrande maggioranza del pubblico non si è accorto, salvo che per la lettura dei comunicati di protesta contro l’azienda, e di difesa di quest’ultima, fortunatamente ancora ammessa a questo diritto.
La ciliegina sulla torta, chiamiamola così, è stata messa dalla insospettabile Repubblica, sostenitrice della protesta, sovrapponendo la parola “Politica”, come occhiello, al titolo di prima pagina dedicato allo sciopero nell’azienda di viale Mazzini presidiata dal famoso cavallo di bronzo. È stata quindi una partita tutta esclusivamente politica. Di sindacale non c’è stato praticamente nulla. E non serve certamente a ravvivarne lo spirito la regressione del linguaggio, e della polemica, con quel grido di “crumiri” lanciato contro quanti legittimamente non hanno aderito allo sciopero ed hanno preferito onorare in altro modo, diciamo così, il servizio pubblico al quale sono preposti. E di cui sono forse in troppi a riempirsi la bocca salendo sulle barricate non tanto contro un’azienda quanto contro uno scenario politico non previsto, non desiderato e prevedibilmente non rovesciabile in questa – per loro – dannata, fottutissima legislatura. Che rischia di smentire anche il passato di una, anzi più riforme costituzionali destinate a non superare il vaglio referendario. Un futuro diverso sarebbe semplicemente l’Apocalisse per lor signori, alla rovescia rispetto a quelli sfottuti dell’indimenticabile Fortebraccio sull’Unità dell’ancora florido Pci.