Negli anni ’80, lo scontro all’interno della sinistra italiana fu cruento. Dopo il Midas, che lo aveva portato alla segreteria del PSI, Bettino Craxi aveva cercato di rompere il cordone ombelicale che, dai tempi di Francesco De Martino, aveva legato il partito, in una posizione subalterna ed ancillare, ai voleri del PCI. Peccato di lesa maestà per la dirigenza comunista di allora. Che aveva risposto con durezza, fino a ipotizzare con Enrico Berlinguer, un mutamento genetico di quel partito. Vale a dire il passaggio dalla difesa degli interessi del movimento operaio verso odiose forme di imborghesimento. E’ il ricordo di antiche polemiche, di cui anche Goffredo Bettini, allora berlingueriano di ferro, si fece portatore.
Che cosa c’era dietro l’autonomia rivendicata dalla nuova classe dirigente socialista, unita intorno a Bettino? Soprattutto l’idea che il problema pratico di una forza riformista non fosse quello di andare oltre la realtà, ma di governare il cambiamento. Consapevoli del fatto che la società stessa esprimeva un suo proprio dinamismo che andava, appunto, governato, senza pregiudizi. Se si voleva evitare il peggio: il pericolo di trasformare il sistema economico nel deserto produttivo dei Paesi del socialismo reale, praticamente immobili, salvo la Cina di Den Xiaoping. Le pecore andavano tosate, non uccise: se non si voleva distruggere il capitale posseduto.
Queste lontane reminiscenze tornano alla mente, dopo aver letto l’intervista di Goffredo Bettini a Il Corriere della sera. Il linguaggio è più sfumato, il pensiero cerca di nascondere antiche vocazioni. Che come nel film Stanley Kubrick, il Dottor Stranamore, tuttavia, emergono improvvise. Irrefrenabili. In polemica con Claudio Petruccioli, ch’era intervenuto su Il Riformista, tuona: “tutti sono stati favorevoli alla formazione del governo Conte II. Occorreva fermare le destre ed impedire una involuzione della crisi sociale ed economica”. La destra come il diavolo da esorcizzare. L’esatto contrario di quanto aveva auspicato Claudio Petruccioli.
La scelta dell’alleanza, per quanto non organica e non strutturale, con i 5 stelle rimane comunque la stella polare del dirigente dem. Anche a costo di mettere in discussione l’ipotesi di “una vocazione maggioritaria”, che fu il cavallo di battaglia di Walter Veltroni. Ma quale vocazione maggioritaria? – replica – occorre invece “rivolgere al Paese una proposta aperta e competitiva”. Che non sia “la rinuncia a fare politica, nei processi reali”. Perché altrimenti “si resta dentro ‘l’accademia della crusca’ di un riformismo perfetto e contemplativo”. Versione aggiornata di quel “migliorismo”, coniato da Pietro Ingrao, per bollare la componente che, allora, faceva capo a Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso.
Per Bettini, infatti, “c’è riformismo e riformismo”. Quello da lui propugnato è “un riformismo democratico e progressista. La forza imponente del capitalismo globalizzato va civilizzata dalla politica”. Auguri: verrebbe da dire. “Altrimenti – prevede – i suoi intimi meccanismi porterebbero alla autodistruzione del genere umano. Penso innanzitutto al tema ormai drammaticamente stringente della transizione ecologica e digitale. Il riformismo è riformare il capitalismo”. Il lessico, come si può notare, si è modernizzato, seppure con qualche imprecisione. Ma i concetti di fondo sono rimasti gli stessi di un’antica tradizione. Basta sostituire alla parola “riformare” il concetto di “superare” e si torna di botto alle tematiche degli anni ’70.
Con una piccola chicca, tuttavia. Comprensibile è il tema della transizione ecologica, in vista delle prossime scadenze (2030 e 2050), ma che c’entra la digitalizzazione? Sono concetti completamente diversi. Che tuttavia a Bettini servono per mettere in ombra il sostantivo, che condiziona entrami: quello dello sviluppo. Sviluppo sostenibile, appunto. Ma sempre “sviluppo”. La vera cifra del Governo Draghi. Il PNRR (Piano nazionale di sviluppo e resilienza) ha concluso, il Ministro dell’Economia, Daniele Franco, nella sua audizione parlamentare, “auspicabilmente ci consegnerà un paese più prospero, più giusto e più sostenibile, con una Pubblica Amministrazione più efficiente e con un contesto regolamentare più favorevole alla crescita economica”.
Ed ecco allora il perché di una diffidenza: “Draghi non è la soluzione politica alla crisi sistemica della democrazia italiana. Draghi è un passaggio alto, rassicurante, fattivo e incisivo, che deve permettere a tempo debito di tornare ad una salutare competizione, anche se spero più civile, tra destra e sinistra”. Passaggio in cui le lodi sperticate hanno quasi il significato di un ben servito. Si spicci, sembra dire, per consentire una normale ripresa della “vecchia” dialettica politica. Come sempre è avvenuto, ogni qual volta in cui i tecnici (Ciampi, Dini o Monti) sono stati chiamati al capezzale del malato. Hanno fornito le cure necessarie, ma poi tutto è ritornato nel solco di una rassicurante (per il ceto politico) tradizione.
E, invece, è proprio questo che non dovrebbe avvenire. Si è arrivati a Mario Draghi dopo averle tentate tutte. Governi giallo-verdi e poi Governi giallo-rossi. Caccia poco dignitosa ai “responsabili”. Presidenti del consiglio quanto meno eccentrici rispetto al dettato costituzionale, che ne regola compiti e funzioni. Se dovesse passare la riforma ipotizzata da Gaetano Quagliariello, si arriverebbe all’istituto della sfiducia costruttiva. Ed allora sarebbe duro giustificare il passaggio dal Conte I al Conte II, con opposte maggioranze parlamentari. Un’anomalia comunque già evidente rispetto alla costituzione vigente.
La speranza quindi è che il dopo Draghi sia completamente diverso dal semplice ritorno al passato. Che le forze politiche italiane sappiano utilizzare questa sorta di anno sabbatico per riflettere profondamente sulla loro natura. Guardando a quel mondo che cambia con una velocità impressionante. Ponendo fine alle velleità di una supremazia in grado di “mettergli le braghe”, come si diceva da ragazzi per sfottere ogni pruderie rivoluzionaria. Riuscirà la sinistra italiana in questo compito difficile? La sinistra, perché essa appare più indietro rispetto all’evoluzione delle altre forze politiche italiane. Se le dimissioni di Nicola Zingaretti accelereranno questo processo, saranno state dimissioni ben venute.