È una sfida alla crisi e forse anche allo spirito del tempo, un tempo in cui lo Stato incarnato in Germania dalla Grosse Koalition di cui la stessa Unione è il partito principale ha rioccupato il proscenio, in nome della battaglia contro la pandemia e le sue conseguenze. Il programma elettorale dell’Unione (Cdu e Csu), presentato nel giorno del solstizio d’estate, miscela passato e futuro, prova a tenere i piedi ben piantati per terra poggiando sulla stabilità di 16 anni di governi Merkel e a gettare il cuore oltre l’ostacolo, promettendo un decennio di innovazione e digitalizzazione che in qualche modo riconosce – senza mostrare però autocritica – l’impasse sul tema nell’era merkeliana.
La sfida è ingaggiare il mondo produttivo, gli imprenditori, nella ripresa economica dopo la pandemia, che non può poggiare solo sull’impegno finanziario dello Stato: per essere sostenibile deve restituire ai privati voglia e mezzi per investire e crescere.
Da qui la promessa centrale: nessun aumento di tasse nei prossimi cinque anni, anzi impegno a un allentamento della pressione fiscale per imprese e ceto medio. Tornano gli accenti liberali, il programma comune di Cdu e Csu rimette almeno sullo stesso piano le due declinazioni dello storico modello tedesco dell’economia sociale di mercato. Il dopo-Merkel vorrebbe diventare un nuovo capitolo, non una fuga in avanti rispetto a tre e più lustri segnati da una stabilità politica che in tempi di crisi è bene rivendicare, piuttosto uno scatto laterale alla ricerca della modernizzazione smarrita.
In questo equilibrio tra passato e futuro c’è il rischio di restare in mezzo al guado, lasciando ai Verdi la proprietà di ogni suggestione innovativa e magari ai liberali il monopolio degli spiriti animali dell’impresa. Non c’è il grande effetto nel programma che Laschet e Söder hanno presentato insieme, ma una dosata mescolanza di certezze e scommesse nella speranza che sia la ricetta giusta per convincere gli elettori il 26 settembre.
Nessun aumento fiscale e alleggerimenti per redditi medio-bassi, dunque. Gli avversari già chiedono conto di come verranno finanziati, l’Unione pensa che tali misure sproneranno cittadini e imprese a spendere e investire e che le risorse arriveranno dalla crescita. Una scommessa, visto il grande flusso di denaro pubblico dovuto alla pandemia, ma non più azzardata di quella dei Verdi, che intendono finanziare le costose misure pro-clima con più tasse e la solita (difficile) lotta all’evasione fiscale.
Una stagione di riforme è adesso quello che l’Unione propone, lasciandosi cadere addosso l’ovvia critica del perché la propongano proprio adesso giacché governa da 16 anni. Digitalizzazione, sburocratizzazione e una nuova formula per garantire la pensione ai giovani, lo studio di una cosiddetta “pensione di generazione”. Recuperare il ritardo accumulato nelle nuove tecnologie, rinsaldare l’alleanza con i partner dell’Occidente democratico per mostrare (soprattutto alla Cina) che le democrazie sono in grado di competere sul futuro con le autocrazie.
C’è naturalmente anche la transizione ecologica, la sfida sull’industria a zero emissioni che l’Unione fissa al 2045, ma che vuole socialmente sostenibile. L’accusa indiretta ai Verdi è di non tenere conto che le fasce più deboli della società non sono in grado di sostenere economicamente i costi di un’accelerazione e che l’industria va coinvolta come un partner non fronteggiata come una controparte. Tanto più che la maggioranza delle imprese ha già inglobato il concetto di sostenibilità nei propri programmi di sviluppo, ben sapendo come essa sia diventata un vantaggio di mercato.
In questo senso vengono rigettate misure come il divieto alla circolazione di motori diesel o l’introduzione di un limite di velocità generale su tutte le autostrade. Via libera invece a un programma di ampliamento e rafforzamento delle ferrovie.
C’è poi un capitolo dedicato alla sicurezza interna, tema cui è sensibile una parte dell’elettorato conservatore cui l’Unione resta fedele, che prevede tra l’altro l’intensificazione dei sistemi di videosorveglianza nei luoghi pubblici, argomento che potrebbe suscitare frizioni con i due potenziali alleati, Verdi e liberali.
C’è molto del nuovo leader della Cdu Armin Laschet in questo programma. Sia nella metodo del lavoro preparatorio, al quale i due partiti gemelli hanno lavorato con pari dignità, sia nel contenuto, segnato da un grande equilibrio. Non vanno sottovalutati accenti nuovi, specie in economia, nei quali si intravvede la mano di Friedrich Merz e dell’ala liberista del partito. Laschet ha fatto quel che aveva promesso il giorno dopo il congresso vittorioso, ha dato spazio a tutte le componenti del partito, cercando poi una sintesi fra continuità e cambiamento, fra affidabilità e innovazione: da un lato il valore della stabilità legato all’eredità merkeliana, dall’altro la necessità di offrire all’elettorato qualcosa di nuovo.
Il rischio dell’equilibrio è di apparire sbiaditi. E qualche critica in tal senso è già arrivata da quegli ambienti che il nuovo programma vorrebbe avvicinare. Un primo commento dell’Handelsblatt, il principale quotidiano economico tedesco, sostiene che in esso si riflettono le “sfocature di Laschet”: un programma creato “per non spaventare i cittadini sfiancati dalla pandemia, poco concreto in molti punti, privo di un vero accento di rottura”.
Alla fine, comunque, più dei programmi dei partiti conterà la personalità dei candidati e la loro capacità di entrare in sintonia con l’umore degli elettori. Che, a tre mesi dal voto, appare molto mutevole. Esaurito l’effetto novità di Annalena Baerbock, gli ultimi sondaggi premiano proprio l’esperienza politica di Laschet: l’Unione non solo è tornata in testa, ma stacca i Verdi di otto punti percentuali, 28 a 20. Gli altri partiti inseguono. E proprio nella questione fiscale va probabilmente individuato uno dei motivi del recente rimescolamento.