Caro direttore,
Paolo Mieli, nell’editoriale del 15 aprile ingannevolmente intitolato con un innocuo “Un’Europa che resti coerente”, dismette l’aplomb cardinalizio che gli conosciamo per assumere le fattezze di un predicatore dei tempi di Innocenzo III. Esordisce spendendo dosi massicce di sarcasmo sulla “trattativa di Istambul (“non resta che riscrivere interi libri sostituendo il nome del presidente degli Stati Uniti con quello di Ursula von der Leyen”) per squalificare la semplice ipotesi che la presidente della Commissione Europea abbia cavalcato con una certa convinzione la situazione belligerante prodotta dall’ingresso nel territorio ucraino delle truppe russe. Poi, dopo questa premessa da “storico”, Mieli si scioglie in un peana a Zelensky che “resiste, per sé e per il suo popolo ma anche per dare all’Europa il tempo di armarsi in modo acconcio”. Resiste, “incurante di chi gli suggerisce di accettare, per il suo bene ovviamente, una pace ingiusta”. Passa poi dalla chiave sarcastica a quella pedagogico-esortativa dichiarandosi fiducioso che l’Europa, finalmente ricongiunta al Regno Unito, farà la cosa giusta, si riarmerà.
Questo si chiama dettare la linea e da buon sessantottino Mieli lo fa in modalità didascalica, senza esitazioni e senza nessuna ex-concessione al dubbio., Fin qui tutto regolare. Il richiamo della trattativa di Istanbul è un espediente retorico. Nessuno oggi può affermare che von der Leyen abbia istigato Zelensky, via Johnson, a silurare la trattativa di Istanbul, lo si saprà forse quando non interesserà più a nessuno. In realtà nemmeno ora interessa più di tanto se la questione riguarda l’atteggiamento di von der Leyen. É del tutto ovvio che vdL abbia dall’inizio cavalcato il clima bellicista, proponendo e ottenendo dal primo giorno sanzioni senza precedenti a cominciare dal congelamento dei fondi della banca centrale russa depositati in Europa. Ma ancora poco tempo prima del 24 febbraio di tre anni fa, sempre von der Leyen si era messa di traverso costringendo Merkel e Macron a rinunciare a un incontro in extremis con Putin. Del resto, la posizione oltranzista è quella che le ha consentito di incrementare vistosamente il proprio potere personale negli ultimi tre anni, così da ottenere, senza colpo ferire, la riconferma al vertice della Ue. Razionale, dal suo punto di vista.
Il problema, che purtroppo mi sembra non interessi a nessuno, è quanto costa ai cittadini europei la brillante carriera della baronessa di palazzo Berlaymont. Perché va bene che i media europei sono ormai in presa diretta con le direttive – scusa il bisticcio direttore – di Bruxelles, ma cominciano a imporsi alcuni messaggi che, per quel che rimane della legittima aspettativa a un minimo di informazione non sfacciatamente di parte, hanno un sapore tossico. Te ne segnalo un paio, direttore, sempre di questi giorni, ma non senza farli precedere da una premessa.
La premessa è che ormai, nella “costituzione materiale” dell’Ue ciò che accade politicamente negli Stati membri è rilevante solo in quanto asseconda, o al contrario potrebbe intralciare, la politica dell’Ue: Macron ridiventa popolare (“il più perspicace leader europeo di oggi”, scrive il Corsera) a Bruxelles quando riesce a sfasciare quel minimo di equilibrio politico che resisteva in Francia, e arriva poi la condanna “inibitoria” a Le Pen; condanna che un intellettuale lucido e integro come Alain Finkielkraut, intervistato dalla Neue Zürcher Zeitung, critica aspramente pur trovandosi su una sponda politica opposta a quella del Rassemblement National. A Berlino la Spd, la sconfitta delle ultime elezioni, nel patto di coalizione con Cd/Csu ottiene tra l’altro un aumento a 15 euro delle paga minima oraria. A Bruxelles secondo Politico si trema in vista dell’esito delle elezione in Romania.
Veniamo ai due piccoli esempi. Il 16 aprile la linea impartita da Mieli si sviluppa in una prima pagina praticamente dedicata al confronto dell’Europa con la Russia e con Trump, vignetta (penosa) compresa. In particolare, nel lungo editoriale di Maurizio Ferrera che nel dettaglio argomenta perché “Un’Europa più unita ci conviene” leggo una frase priva di senso (“quel che serve è un cambio di mentalità”: come se i media europei non fossero già inondati dal pensiero unico di Bruxelles) che però porta poi a una frase fin troppo ricca di contenuto. Scrive Ferrera: “É ovvio che l’unità, da sola, non può bastare: serve anche la capacità di fare. Su questo versante il dibattito è eccessivamente – sottolineatura mia – focalizzato sulla questione della sovranità intesa in senso giuridico (a chi spetta decidere, su cosa e come). Le competenze e le procedure decisionali sono una cosa importante. Ciò che conta nell’arena internazionale sono però le risorse di potere che un attore può e sa spendere per competere con gli altri. La domanda urgente da porsi oggi riguarda proprio le risorse”.
É chiaro il concetto, direttore? Ma dovrebbe anche esserti chiaro che è scritto in modo tale che il lettore salti e passi al paragrafo successivo… Comunque sia, di problemi istituzionali, di legittimazione democratica, di queste fesserie di cui si nutre la politica non si deve parlare. C’è un’emergenza e si affronta l’emergenza. Questa è la filosofia politica della baronessa che, in nome di queste eterno primum vivere, non solo è riuscita nell’impresa di concentrare nel suo ruolo personale un potere senza rivali perché di fatto non controllabile, e di trasformare l’Europa nel deserto della politica ma soprattutto, con una gestione pianificatoria centralistica che farebbe perfino di Napoleone Bonaparte un illuminato propugnatore del federalismo, ha contribuito in questi vent’anni proprio alla distruzione di buona parte delle risorse di imprenditorialità di cui l’Europa poteva menar vanto, sino allo scientifico sabotaggio dell’automotive in nome del green deal.
Questa situazione autorizza un alto burocrate di Bruxelles ormai di lungo corso, Marco Buti, a esprimere in un’intervista a Huffpost “la (mia) speranza (è) che la premier convinca Trump a parlare con von der Leyen”. Evidentemente è scontato che la massima aspirazione di un presidente del Consiglio italiana non possa essere che quella di fare da sherpa all’inevitabile incontro della baronessa di Bruxelles con the Donald. Fatti tutti i conti, discorsi tossici e anche un po’ tanto sfacciati.
Teodoro Dalavecuras