Una collega di una trasmissione tv mi ha chiesto se fossi disposto ad andare in studio a difendere Selvaggia Lucarelli, visto che abbiamo lavorato insieme per anni.
Ho spiegato che stimo da sempre Selvaggia ma che la mia posizione sulla vicenda della recensione della pizzeria e della signora Giovanna Pedretti che, pare, si è uccisa, è un po’ più complessa che “stai con Selvaggia o contro”.
Anche perché, onestamente, non credo che ci sia un “caso Lucarelli”, così come credo che molti – utenti e produttori di contenuti – debbano fermarsi un attimo a riflettere su tutto quello che non ha funzionato in questa vicenda.
La sintesi della mia posizione, che dubito sia adatta per un talk show ma che qui posso argomentare, è che la vicenda della recensione falsa non era una notizia, se anche si fosse deciso di trattarla come una notizia non era uno scandalo, e se anche qualcuno avesse pensato che era uno scandalo, bisognava ricordarsi che era uno scandalo con protagonista una persona normale e non una professionista della comunicazione e della polemica social.
A me, come a Selvaggia, come a Lorenzo Biagiarelli, le polemiche social non spaventano, l’indifferenza è la più temuta delle reazioni a un contenuto immesso nell’etere proprio per produrre discussione. Ma le persone normali – e di questo è facile perdere consapevolezza – reagiscono in modo diverso, non guardano il tasso di engagement ma vengono travolte dalla popolarità o dalle polemiche.
Popolarità o polemiche che – e anche questo è bene ricordarlo – in questa vicenda non sono alimentate da utenti anonimi (i famigerati hater) ma dai giornali tradizionali e da quelle loro degenerazioni online che sono i siti di news specializzati nel copiare contenuti altrui con aggiunta di titoli esasperati, con titolazione per massimizzare l’impatto sui motori di ricerca.
Il mondo della comunicazione è cambiato, ma i giornalisti e in generale i produttori di contenuti, non sembrano esserne del tutto consapevoli e quando succede un pasticcio che (forse) contribuisce a una tragedia, parte lo scaricabarile: è sempre colpa di qualcun altro.
Perché non era una notizia
La vicenda della pizzeria Le Vignole non era una notizia, neppure secondo i più spregiudicati criteri definitori che si possano adottare. Una signora qualunque, di provincia, pubblica uno screenshot di una risposta indignata a un avventore omofobo e abilista, che lamentava cioè di essersi trovato seduto accanto a un tavolo con persone omosessuali e disabili.
Vera o falsa che fosse la recensione e l’annessa risposta, la cosa non doveva avere alcuna rilevanza giornalistica. Per molte ragioni.
Primo: la signora Giovanna Pedretti era una perfetta sconosciuta, non sappiamo nulla di lei. E sconosciuto e anonimo è anche il “cattivo” di questa storia. Il lavoro giornalistico presuppone che il giornalista ne sappia più del lettore, e qui questo requisito non viene rispettato.
Non c’è modo di approfondire o di verificare nulla, non si sa se il recensore è un politico leghista locale, un parente dei ristoratori che voleva fare uno scherzo il primo d’aprile, uno che ha sbagliato ristorante, un bot, un ristoratore concorrente… Niente, zero. Dunque non c’è notizia.
Ma la faccenda non era una notizia per un’altra ragione semplice: manca il fatto.
Cosa è successo? Nulla: un tizio ha fatto un commento, la ristoratrice ha risposto. E’ una degenerazione della nostra vita digitalizzata pensare che un commento, come un like, un cuoricino, un retweet equivalga a un’azione. Non è così.
Non si fermano le guerre con gli hashtag, non si difendono i diritti con una bandierina arcobaleno a fianco del nome utente su un social, non si mandano munizioni e carri armati all’Ucraina con una spilletta sul bavero.
Sono tutti segnali di auto-posizionamento, manifestazioni della nostra identità pubblica. Non fatti da raccontare.
L’unico “fatto” riguardante la pizzeria Le Vignole è che una ristoratrice ha voluto segnalare dalla sua pagine Facebook il fatto che nel suo ristorante sono tutti benvenuti tranne gli intolleranti. Non sappiamo se ha perso clienti o li ha guadagnati, non sappiamo quando è successo, mancano tutte le famose W del giornalismo: c’è solo il Where, dove. Mancano il chi, il perché, perfino il quando. E’ una notizia?
Il Corriere della Sera ha pensato di sì. Ed è da lì che si è innescata la degenerazione, non dai famigerati social. Come ha ben sottolineato a Melog Gianluca Nicoletti, a complicare le cose ci si è messa la ministra per la Disabilità Alessandra Locatelli che ha commentato il post della signora Pedretti. Perché?
Nicoletti coglie il punto: perché ormai giornali e politici ragionano allo stesso modo, vedono cosa c’è “in tendenza” sui social e i motori di ricerca e provano a inserirsi nel flusso, per essere ripresi (da altri giornali o dai social e motori di ricerca stessi).
Una non notizia viene elevata a notizia dal Corriere e a notizia politica dalla ministra, il tutto perché era di tendenza in qualche social.
Perché non era uno scandalo
La polemica di Lorenzo Biagiarelli e poi di Selvaggia Lucarelli aveva come inziale bersaglio questa dinamica, ma il coinvolgimento di Selvaggia – specializzata nel denunciare scorrettezze e alimentare polemiche – ha cambiato un po’ i toni della vicenda.
In fondo, nelle ultime settimane Selvaggia Lucarelli è stata spesso citata per aver denunciato – correttamente – le pratiche commerciali intrecciate alle iniziative benefiche di Chiara Ferragni, poi sanzionata dall’Antitrust.
Ma c’è uno scandalo nella vicenda Pedretti-Le Vignole? No. Per due ragioni: perché la signora ha spiegato da subito – più o meno – cosa aveva fatto, e perché se anche fosse stato tutto falso dall’inizio al massimo sarebbe stata una ingenua operazione di marketing per promuovere il proprio locale come inclusivo e accogliente. Un comportamento che i leghisti potrebbero criticare, ma non chi condivide i valori di fondo espressi dalla risposta della ristoratrice.
Già nelle prime versioni, per quanto superficiali, di questa non-notizia è esplicitato quello che poi verrà contestato come lo scandalo: la signora ha fotografato una recensione negativa e omofoba e, molti mesi dopo, l’ha postata con una sua risposta.
La risposta era contestuale, all’epoca della pubblicazione della recensione? O successiva, un po’ come quando ci viene in mente ore dopo quello che avremmo tanto voluto rispondere a chi ci aveva apostrofato in malo modo?
L’ha postata mesi dopo perché il famoso avventore omofobo, noto ma anonimo, è tornato nel locale? O per spingere i ricavi dopo Natale? O semplicemente una signora con una vita complicata voleva prendere qualche like per sentirsi dalla parte giusta?
Devo dire che proprio non capisco la rilevanza di queste domande, specie perché è la stessa ristoratrice a postare non lo screenshot del botta-e-risposta, ma un montaggio.
C’è una versione abbastanza coerente della storia, che la signora ha raccontato ai carabinieri “che l’avevano chiamata a deporre (come potenziale vittima in un fascicolo contro ignoti)” sabato.
Inciso: ma non hanno niente di meglio da fare i carabinieri, pure loro prigionieri delle logiche social?
(Estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri)