Skip to content

brandizzo

La tragedia di Brandizzo e la menzogna dei “basta”

Fatti, parole e omissioni nei commenti sulla tragedia di Brandizzo. Il corsivo di Battista Falconi

 

Con tutto il rispetto per il Presidente della Repubblica ma soprattutto per le cinque vittime della tragedia di Brandizzo, viene da chiedersi cosa significhi sul piano letterale, in italiano, che “morire sul lavoro sia un oltraggio ai valori della convivenza”. Non è la prima volta che Sergio Mattarella utilizza perifrasi tanto arzigogolate da apparire non pienamente comprensibile, del resto si tratta di un carattere atavico del linguaggio istituzionale e burocratico che il Quirinale ha sempre assecondato. E che fa il paio con l’altro genere retorico, molto usato anche in Vaticano, dei “moniti”. Anzi: “alti moniti”, cioè rampogne, raccomandazioni e auspici generalmente di assoluta banalità, anche qui con il massimo rispetto.

Nel merito dell’incidente avvenuto alla stazione e uscendo dalle circonlocuzioni, peraltro, ci sarebbero da evidenziare cose estremamente sgradevoli, delle quali certo non è il capo dello Stato a potersi fare interprete. Che i morti del lavoro seguono una linea costante da talmente tanto tempo che ben difficilmente qualcuno la potrà spezzare. E che quindi dire, come si dice, “basta morti sul lavoro” ma anche “basta femminicidi”, o “basta omicidi assurdi come quello del musicista a Napoli” e della persona uccisa a una rotonda al Conero pochi giorni prima e già dimenticata, oppure ancora “basta vittime negli incidenti stradali” – tutti i “basta” e i “mai più”, insomma – significa mentire sapendo di farlo. Noi potremo fare tutto il possibile per ridurre certi fenomeni ma non li potremo mai azzerare.

Chiarito questo, la frase di Mattarella si nota anche perché sì oppone al linguaggio ormai prevalente nella comunicazione pubblica, connotata da un’apparente spudoratezza che rimanda a tre vizi retorici. Il primo è la fretta di parlare senza riflettere, che i social network hanno enfatizzato anche se è preesistente al web 2.0. Il secondo è l’insensata convinzione di poter parlare in maniera riservata, come l’organizzatore della “claque” (che non deve sembrare tale) per la visita di Meloni a Caivano, un episodio esilarante, con il mittente che si rivolge fiducioso e confidenziale al “livello apicale di dirigenza”. La questione, di nuovo, è precedente ai social media e a internet – basta rileggere Manzoni, che spiegava come il modo migliore per diffondere una notizia sia di raccomandare riservatezza – che sono ovviamente un volano molto veloce e potente. Il terzo vizio è la scarsa attenzione alla forma: si pensa che l’importante sia la sostanza di ciò che si dice, mentre la comunicazione è un prodotto tra contenuto, canale e quegli apparenti accessori che definiamo “metacomunicazione”: ciascun fattore è determinante quanto l’altro. Dunque, dire una cosa verissima, come quella di Giambruno su stupri e alterazione da alcol o sostanze oppure quella di Lollobrigida sul mangiare dei poveri, con le migliori intenzioni ma in una formulazione ambigua che lascia spazio alle ampiamente prevedibili polemiche montate dagli avversari, significa cadere in un’ingenuità che nessun giornalista o politico può più permettersi.

E come mai cadiamo continuamente in simili errori o gaffe? Perché le notizie si alternano velocemente e vengono enfatizzate nel tentativo di renderle più penetranti, anziché dare loro l’attenzione costante che, sappiamo, produce assuefazione e quindi scarso interesse, scarsa attenzione.

Torna su