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La metafisica spiegata a noi ignoranti da Lucio Colletti

Il Bloc Notes di Michele Magno

Era il 1996 quando Lucio Colletti (1924-2001), professore ordinario di Filosofia teoretica all’università La Sapienza di Roma (chi scrive ha avuto il privilegio di essere suo assistente per un paio d’anni), scrisse una raccolta di saggi e articoli dal titolo “Fine della filosofia e altri saggi”, pubblicati da una piccola casa editrice, Ideazione. Tra le sue ultime testimonianze, in essa si interrogava sul senso stesso della filosofia (“ha ancora una ragione d’essere?”), esprimendo così tutto il disincanto dato dalla consapevolezza che non esistono certezze assolute.

Sarcastico, amante della provocazione intellettuale, Colletti fu un profondo conoscitore di Kant e dell’idealismo tedesco. Formatosi con Galvano Della Volpe, che lo aveva introdotto al marxismo e che ne aveva ispirato libri come “Il marxismo e Hegel” (1969) e “Il marxismo e il crollo del capitalismo” (1970), nel 1974 approdò alla prima irreversibile svolta: l’allontanamento da Marx. Ripensamento che era destinato a non restare l’unico. Lui che infatti aveva dedicato tutta la vita al suo studio, negli ultimi anni cominciò a chiedersi “che ne è della filosofia?”.

Per oltre duemila anni il pensiero filosofico ha preso le mosse dalla divisione tra mondo terrestre e mondo celeste, tra sensibile e sovrasensibile. Secondo il pensiero greco e cristiano, in basso si trovava il regno del divenire, corruttibile e effimero, mentre in alto si trovava l’Essere incorruttibile e eterno. In questo contesto, scrive Colletti, ciò che colpiva sta nella coincidenza tra conoscenza e salvezza. “L’Essere supremo, che è l’oggetto del sapere filosofico, si trova a rappresentare simultaneamente sia la Realtà vera e propria, sia il Bene o l’Amore, cioè il principio di salvezza: Dio”. Coincidenza che, se nella filosofia greca era solo in nuce, con il cristianesimo si realizzerà in pieno: “Il Padre è l’Essere, cioè la realtà suprema; quest’ultima a sua volta è amore, principio di redenzione e salvezza”.

Salvezza che per l’uomo altro non è se non “aver garantito il senso della propria vita, il significato dell’esistenza; sopravvivere in qualcosa che ci trascenda”. Sentirsi parte di un tutto ordinato, in un  cosmo con al centro l’essere umano, fece sì che per molti secoli la salvezza coincidesse con l’antropocentrismo: “una rappresentazione della realtà finalizzata alla nostra esistenza, cioè modellata in modo da poter corrispondere alle nostre esigenze di rassicurazione e di conferma”. Mentre la conoscenza altro non era se non lo studio proprio di quella realtà suprema e sovrasensibile, principio di tutte le cose, da cui l’individuo si aspettava la salvezza.

Le cose cambiarono con l’avvento della rivoluzione scientifica. Nel Seicento, “al prorompere delle scienze, la filosofia o metafisica si vide strappare una dopo l’altra le sue ragioni, ritrovandosi senza un oggetto proprio”. D’un tratto vennero infrante quelle stesse barriere che per secoli la filosofia classica aveva eretto per separare cielo e terra, sensibile e sovrasensibile. Se la rivoluzione copernicana riportò la Terra a un punto infinitesimo di un universo assolutamente illimitato, Darwin riportò l’uomo a un anello del processo evoluzionistico, privandolo della sua “condizione speciale” che lo voleva al centro del Creato. In un contesto in cui la realtà apparteneva alla sfera spazio-temporale, il sovrasensibile non ebbe più una sua collocazione. Ecco dunque che con la separazione tra fisica e etica, la metafisica perse “il suo Essere, cioè l’oggetto che era destinato a conoscere”.

Con Immanuel Kant, “l’ultimo filosofo classico che è stato in rapporto positivo con la rivoluzione scientifica”, la metafisica si andò poco alla volta dissolvendo, lasciando il posto alle scienze. Fu Kant, infatti, che cominciò una “vasta opera di demolizione, la quale sbaraccò ciò che aveva formato oggetto di intere biblioteche (compresa non poca parte dell’opera di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz): prove metafische dell’immortalità dell’anima e prove metafisiche dell’esistenza di Dio”.

Uniche a salvarsi da questa ondata distruttiva furono le scienze, o meglio le scienze di allora, la geometria euclidea e la meccanica di Newton. Con Kant e la conseguente separazione tra scienza e fede, si ebbe “il vero luogo di nascita della dissoluzione tra fatti e valori: due mondi tra cui non c’è comunicazione”. Ma se la scienza permette all’uomo la conoscenza del mondo e del suo funzionamento, nulla è in grado di svelare all’individuo riguardo al senso dell’esistenza, al suo bisogno di trascendenza. A questo proposito, Ludwig Wittgenstein nel suo “Tractatus” (1921) scrive: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono neppure toccati”. Dunque il desiderio di salvezza, il bisogno di speranza, il “sentirsi nelle mani di Dio”, per il grande logico austriaco restava ben più importante della “nauseante scienza”.

“Sfrattata dalla natura e in piena decomposizione”, la metafisica reagì con quella che Colletti ha definito la “sostituzione del concetto di realtà”, fenomeno che raggiunse il suo culmine con Hegel, Marx e Heidegger. Queste filosofie, destinate a dominare il pensiero occidentale negli ultimi due secoli, pur nella loro diversità hanno affermato che “la Realtà è solo la storia umano-divina, il corso nel tempo delle nostre vicende, che nel loro svolgersi si trovano orientate ad opera della Provvidenza divina o del cosiddetto ‘Senso della storia’ verso un Fine ultimo che rappresenta la salvezza”. La metafisica assume quindi un nuovo aspetto e diviene filosofia della storia, “trasferendo l’assoluto nel tempo, ovvero mutandolo nel traguardo verso cui tende il corso storico”.

Scrive Colletti che “la filosofia della storia è una concezione che non solo abbraccia l’intero corso del tempo in una totalità razionale e organica, dotata di senso; ma che considera quel corso di eventi storici come disegnato e diretto da un’entità superiore -la Provvidenza vichiana, l’astuzia della Ragione di Hegel o il telos della ‘umanità europea’ secondo Husserl- capace di indirizzarlo verso un fine ultimo”. Nel millenario contendersi il primato, è la salvezza che soppianta la conoscenza, “l’esigenza della rassicurazione e gratificazione dell’uomo prende definitivamente il sopravvento sull’istanza di conoscere una realtà che, per lo più, corrisponde assai poco ai nostri desideri”.

Il grande malinteso della filosofia fino a oggi, sostiene Colletti, è stato quello di cercare “là fuori” l’oggetto della conoscenza, una risposta agli interrogativi dell’uomo. La conclusione cui si è giunti nell’epoca post-filosofica è la mancanza di certezze assolute. Resta “solo da vivere la propria quotidianità, addentrandosi a lume di candela nel buio”.

 

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