Dati recenti, rispettivamente di Censis e Istat, confermano che nella fruizione video i televisori sono stati sorpassati da altre tipologie di schermo e che nella composizione dei nuclei familiari i single hanno assunto la maggioranza. Due fenomeni speculari che definiscono un aspetto della nostra società, la frammentazione, talvolta sottovalutato rispetto a quello della complessità. Non si tiene conto a sufficienza dell’estrema parcellizzazione dei pubblici che si aggiunge alla quantità di messaggi esorbitanti la possibilità di gestirli in modo corretto e consapevole. Siamo monadi, ci muoviamo in una dimensione atomica e questo rende quasi impossibile generare flussi che ottengano il risultato atteso.
Rispetto a questo quadro composito, permane però una mentalità ingenuamente causalista, che in ambito mediale si declina secondo la cosiddetta teoria ipodermica, quando invece non basta più inviare una comunicazione, anche costruita in modo efficace e con un contenuto autorevole, perché il destinatario la segua in modo pedissequo. Ciascuna componente dell’audience raggiunta, con sempre maggiore difficoltà, elabora il proprio feedback in modo individuale, diversificato. Bisognerebbe quindi approcciare i processi sociali in modo meno sociale, per usare un paradosso, e più liberale.
La riflessione sorge spontanea davanti alla persistente produzione e diffusione, da parte dei maggiori broadcaster tradizionali, di prodotti come la fiction “Circeo” di cui ieri è andata in onda su Rai Uno la prima puntata e che descrive con colorazioni decisamente manichee un episodio orrendo della nostra storia novecentesca, lo stupro di Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, dal quale soltanto la prima si salvò fortunosamente. La ragazza divenne così protagonista di un processo penale storico, che contribuì alla considerazione della violenza carnale quale reato contro la persona e non più contro la morale. Fermo restando che tutti oggi consideriamo tale conquista irrinunciabile, colpisce la suddivisione netta operata dal film tra i cattivi – gli stupratori, le loro famiglie e il mondo alto-borghese romano al quale appartenevano – e i buoni, rappresentati dalle famiglie popolari delle vittime, dagli avvocati che ne assunsero la tutela, dalle militanti femministe, dal sacerdote partigiano, dai giornalisti del “quotidiano comunista” manifesto e dall’oste che li accoglie nella sua trattoria. L’imprinting politico del prodotto è insomma esplicito.
Oggi abbiamo un governo interessato ad altri messaggi socio-culturali, quali il patriottismo o l’allarme per gli abusi e i comportamenti a rischio, che legittimamente cerca di veicolarli attraverso la fiction, oltre che con l’informazione e l’approfondimento. La considerazione che i prodotti di finzione sotto questo riguardo siano più efficaci, rispetto a quelli giornalistici, è assolutamente corretta: sia per la maggior capacità penetrativa delle narrazioni, sia per la scarsa qualità di molta parte dei prodotti informativi italiani. Il problema è che non viviamo più nel vecchio mondo del mainstream, oggi sostituito dall’infodemia.
Chi lavora nel vasto ambito della comunicazione, così, si sente rivolgere richieste inesaudibili di supporto per sostenere le migliori campagne e intenzioni. I mass media sono tirati in ballo con estrema frequenza, assieme alla famiglia, alla scuola e alla politica, come se queste agenzie sociali davvero potessero spostare opinione e consenso in modo diretto, automatico e significativo (l’unica che non viene più considerata è la chiesa, consapevoli che la sua capacità di aggregazione è ormai ridotta a quasi più nulla). Da questa ingenuità siamo affetti un po’ tutti ma a pagarne il prezzo maggiormente sono la destra e il suo tentativo di sovvertire lo stato di egemonia gramsciana, per il quale i valori fondanti della nostra società sono sempre quelli sostenuti dalle due famiglie progressiste, la social-comunista e la radical-libertaria.
La riuscita di questo tentativo, pur avendo l’attuale governo e la sua leader una visione molto consapevole e convinta, è ostacolata dalla mancanza di canali i cui effetti siano davvero garantiti, oltre che dalla qualità spesso scarsa dei prodotti che vi si veicolano. E poi c’è la difficoltà di modificare i paradigmi in un contesto multimediale affetto dalla coazione a ripetere definita come Legge di Matteo. Lo conferma “Circeo”, considerando che la stessa storia dello stupro di Donatella e Rosaria era già stata raccontata dal film “La scuola cattolica”. La tendenza dei media non è a investire in innovazione, ma a battere i sentieri narrativi già consolidati. Da pochissimo, sempre Rai Uno ha trasmesso “Per Elisa”, un film sull’omicidio di Elisa Claps, altro fatto di cronaca portatore di valenze politiche, sul quale è andata online pressoché in contemporanea anche la serie “Dove nessuno guarda”.