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Perché Caracciolo di Limes ha torto sull’Italia fuori dalla Nato

Secondo il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, all'Italia converrebbe uscire dalla Nato per allearsi bilateralmente con gli Stati Uniti. Il commento di Gregory Alegi, storico e giornalista, docente alla Luiss Guido Carli

«Nella Guerra Grande che si allarga l’Italia non conta ma paga il conto». Recita così lo strillo di copertina del più recente numero di Limes. Non è quindi a Putin che si riferisce il titolo «Stiamo perdendo la guerra», come questo Pierino si è affrettato a scrivere sull’eX Twitter, scherzando sulle posizioni filorusse attribuite alla testata.

Lo conferma l’intervento firmato ieri dal direttore Lucio Caracciolo su Repubblica, il quotidiano del gruppo Gedi che edita anche Limes. Il succo è che all’Italia converrebbe uscire dalla Nato per allearsi bilateralmente con gli Usa, a condizioni meno onerose di quelle che l’Italia sconfitta dovette accettare tre quarti di secolo fa. Una sorta di “Iterum Italiam Magnam Facemus”, slogan trumpiano declinato in salsa BoJo da un leader nazionalista che ancora non c’è. Altrettanto in sintesi: è illusorio pensare di poter contare molto di più sulla scena mondiale stando fuori della Nato anziché dentro.

Dietro il titolo non è difficile intravedere l’ennesimo riconfezionamento della posizione che la testata martella sin da quando dichiarava che Putin non avrebbe invaso l’Ucraina: la Russia è amica dell’Italia, l’Europa è nemica dell’Italia, sarebbe nostro interesse riconoscere la vittoria russa e ripristinare gli scambi commerciali con Mosca. Le cose, però, non stanno proprio così.

FUORI DALLA NATO, SENZA UE

In termini politici, la prima conclusione è che la posizione sia un siluro contro la Nato, senza neppure l’alibi-contropartita dell’accelerazione di una difesa europea. La seconda è la conferma di un allineamento alla «visione di Trump», che lo stesso 10 febbraio in un comizio in South Carolina ha addirittura invitato Putin ad attaccare i paesi Nato che non “pagano le quote” dell’Alleanza. (Nota: nell’Alleanza non ci sono “quote”, ma solo livelli di spesa, che in gran parte restano interni all’economia del membro).

Se la convergenza temporale è  un caso, senz’altro non lo è quella politica: Caracciolo e Trump puntano allo smantellamento della difesa collettiva imperniata sull’articolo 5, in base al quale l’offesa a un Paese membro è considerato come un attacco anche a tutti gli altri. “Tutti per uno, uno per tutti”, come i Tre Moschettieri. Questo meccanismo automatico, da sempre una delle principali attrattive della Nato, impedisce all’aggressore di sfruttare la superiorità relativa per aggredire un Paese per volta, come nella “strategia del carciofo” seguita da Hitler negli anni Trenta. Una lezione oggi dimenticata ma ben presente nel 1948-49 quando la crisi di Berlino impose agli Usa di Truman un approccio più strutturato rispetto al puro containment.

Fuor di metafora, per la Russia l’indebolimento della difesa collettiva – oggi atlantica, euro-atlantica domani – dell’intero continente ridurrebbe oggettivamente il prezzo di un’invasione di Finlandia o Estonia o di un attacco aereo a Polonia o (perché no?) Italia. In questo senso, è evidente come in termini generali la proposta rifletta la trita logica di sganciarsi dall’Occidente in nome di un presunto interesse nazionale a esportare parmigiano a Mosca o Ferrari a Pechino.

E PER L’ITALIA?

Per l’Italia, l’accordo diretto bilaterale con gli Usa sarebbe ancora peggio, da qualsiasi parte lo si guardi. In primo luogo, il peso della richiesta di Washington per certi livelli di spesa per la difesa aumenterebbe, perché non si potrebbe più contare sui programmi Nato finanziati in larga misura dagli Usa: dal sistema integrato di difesa aerea NADGE agli shelter per gli aerei, sono tante le voci cui l’Alleanza contribuisce. È anche chiaro che le richieste di partecipazione o supporto agli interessi Usa non diminuirebbero: per esempio, resterebbero tal quali le spedizioni di Aeronautica Militare e Marina in Giappone. Dal punto di vista industriale, l’industria della difesa occidentale lavora su standard Nato che saremmo quindi costretti a subire senza far parte del processo decisionale. Un po’ come è accaduto agli inglesi nei confronti dell’Ue con la Brexit. Infine, ed è cruciale dal punto di vista operativo, perderemmo l’accesso alle reti Nato di comunicazione classificate e ai loro contenuti, come scoprirono – per dirne una – gli svedesi rischierati in Sicilia per le operazioni sulla Libia nel 2011-12.

Ancor più del “Mediterraneo allargato”, la ricerca della grandezza nazionale si scontra con geografia, materie prime e altri elementi invarianti da sempre alla base delle vulnerabilità italiane. Nonostante l’innegabile progresso compiuto rispetto agli inizi del XX secolo, l’Italia resta sempre “la più piccola delle grandi potenze”, secondo la celebre definizione anglosassone che Carlo Santoro declinò come “media potenza regionale” per non ferire troppo il nostro orgoglio. A questo corrisponde l’altrettanto radicata aspirazione a un rango di primo livello, compendiata dall’icastica lettura della nostra politica estera come timore di essere lasciati fuori (“me too, please”), che a sua volta si traduce nella certezza di poter coinvolgere l’Italia in qualsiasi iniziativa (“Italy can be always counted upon”, come si dice a Washington) ma anche nella reputazione di doppiezza per spuntare minimi vantaggi, a scelta tra Guicciardini (“Franza o Spagna purché se magna”) o Luigi XIV (“I Savoia non finiscono mai una guerra sotto la stessa bandiera con cui l’hanno iniziata”).

E IO PAGO…

A proposito di pagare: con un debito pubblico già oltre il 140% e una cultura nazionale poco sensibile ai temi della difesa, il problema non è tanto avere idee (tipo il “Piano Mattei”) quanto risorse stabili per portarle avanti. Per un’Italia sganciata dalla Nato, i costi della sicurezza sarebbero senz’altro più alti. La tutela degli interessi nuovi e tradizionali è già oggi assai difficile. Fuori della Nato diventerebbe insostenibile, o ancor più dipendente dalla buona volontà del Congresso americano, non necessariamente allineato alla visione dell’inquilino della Casa Bianca. Se tale sostegno venisse a mancare, ci si ritroverebbe in breve alla mercé del ricattatore o bulletto di turno.

Sembra di essere tornati negli anni Trenta, quando per conquistare l’Etiopia Mussolini abbandonò le potenze dell’ex Intesa, con le quali l’Italia aveva vinto la Prima guerra mondiale. Sappiamo come finì: economia distrutta da un decennio di guerre, perdita di territori e sovranità (perché questo c’è dietro le Foibe e persino Gheddafi), trattato di pace punitivo (che pochi giorni fa ci ha costretti a restituire un aeroplanino all’Etiopia), esclusione dall’Onu fino al 1955. Dall’isolamento ci salvò … la Nato. prima organizzazione internazionale disposta a scordare le aggressioni compiute in nome del Mare Nostrum e del ritorno dell’Impero sui colli fatali di Roma.

Nell’attuale difficile contesto globale, gli accordi internazionali sembrano essere davvero solo i pezzi di carta di bismarckiana memoria. Lo ricorda, uno su tutti, il Memorandum di Budapest, nel quale la Russia si impegnava a rispettare l’integrità territoriale e l’autonomia politica dell’Ucraina. Sappiamo come è finita. Di fronte a questa preoccupante fragilità, il primo e maggior interesse italiano non può essere che tenersi ben stretto il trattato più solido che abbiamo a disposizione. Altro che “Iterum Italiam Magnam Facemus”.

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