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Varoufakis

Il capitalismo è morto con un sussurro evolutivo?

Il corsivo di Teo Dalavecuras.

 

Nella presentazione dell’ambizioso “executive order” (vedi Start del 10 luglio) con il quale Joe Biden vorrebbe ripristinare la concorrenza in tutti i settori dell’economia americana, anzi, secondo Axios, cambiarne proprio i connotati, il presidente Usa dice, a un certo punto, letteralmente: “Voglio essere molto chiaro, il capitalismo senza concorrenza non è capitalismo. È sfruttamento”.

Anche se l’enfasi di un presidente si deve capire, anche se chiunque abbia sentito parlare di un certo Karl Marx potrebbe replicare che l’economia senza sfruttamento non è capitalismo ma il sommo pontefice del capitalismo come religione civile non può badare a questi dettagli, nonostante tutto questo, Biden farebbe bene a trovarsi nuovi ghost writer, perché la battuta che gli è stata suggerita, comunque sia, è obiettivamente infelice. Il pubblico americano sarà forse di bocca buona, ma Biden ha un profilo di leader globale da difendere.

Che parlare di capitalismo sia un non senso ormai l’hanno capito quasi tutti, c’è già qualcuno che ha deciso di dirlo pubblicamente anche in America e non è l’ultimo della pista, anzi è uno che se getta un sasso nello stagno ha sicuramente le sue buone ragioni.

“Così muore il capitalismo: non con un bang rivoluzionario ma con un sussurro evolutivo. Così come ha preso gradualmente, in modo surrettizio, il posto del feudalesimo finché un giorno la gran parte delle relazioni tra gli uomini si è trovata a dipendere dal mercato e il feudalesimo è stato spazzato via, così oggi il capitalismo si trova soppiantato da una nuova modalità economica: il tecno-feudalesimo. Si tratta di un’affermazione anticipata da previsioni premature, specialmente nella sinistra, sul decesso del capitalismo. Ma questa volta potrebbe esser vero”.

A dirlo è Yanis Varoufakis, una vecchia conoscenza del “giro” progressista globale. Non pochi ricorderanno i numeri di alta spettacolarità che, nelle vesti di ministro delle finanze ellenico, aveva riservato agli sfortunati componenti dell’Eurogruppo alle prese, nei primi mesi del 2015, con l’insolvenza greca, ai quali per risolvere il problema di un debito pubblico pari a oltre una volta e mezzo il Pil, oltre a elargire a ogni incontro lezioni di economia ai suoi colleghi ministri, aveva spiegato come avrebbe risolto l’annosa piaga dell’evasione fiscale: pagando qualche soldo ai giovani turisti stranieri per farne agenti “undercover” del fisco ellenico così da incastrare i negozianti che non emettevano lo scontrino fiscale (tutto scritto in perfetto inglese su carta intestata del ministero in una lettera inviata a Bruxelles, mentre lo stato ellenico versava nell’impossibilità di pagare gli stipendi alla fine del mese e il governo Tsipras studiava la possibilità di appropriarsi materialmente dei  soldi della Banca di Grecia).

Varoufakis però non va sottovalutato, anzi. Non solo e non tanto per la sfacciataggine degna di un parlamentare dei 5Stelle (come si potrà mai dimenticare l’impagabile “questo lo dice lei!” rivolto da Laura Castelli a Pier Carlo Padoan, uscito poi verosimilmente tramortito dalla propria breve esperienza politica?). Varoufakis è uomo di sconfinata autoreferenzialità e cinismo, ma anche persona di straordinaria intelligenza e preparazione, che ha dimostrato anche nell’attività accademica e in quella consulenzial-imprenditoriale (nel settore dei videogiochi). È anche molto ben connesso. Appartiene alla schiera degli intellettuali e premi Nobel in genere che promuovono il verbo progressista dalle pagine di Project Syndicate ma gioca da battitore libero, perché se lo può permettere.

Non che nell’articolo sulla morte del capitalismo si leggano cose straordinarie: non è frutto di una ricerca originale ma l’esposizione intelligente e ordinata (che già non è poco) delle ultime tappe che hanno portato all’esito fatale. Per Varoufakis è con la crisi del 2008 (la crisi dei subprime, di cui però pudicamente non articola il nome) che il cambiamento in corso da decenni si trasforma in discontinuità: “Da quando nell’aprile 2009 le banche centrali si sono unite per disincagliare la finanza globale usando la loro capacità di stampare moneta, è emersa una discontinuità profonda. Oggi l’economia mondiale funziona grazie non ai profitti privati ma alla costante generazione di moneta delle banche centrali. Nel frattempo, l’estrazione del valore si è progressivamente spostata dai mercati alle piattaforme digitali come Facebook e Amazon che non operano più come oligopoli ma come feudi privati o come fondi patrimoniali”. Di conseguenza “la politica fondata sul conflitto di classe nella quale i partiti favorevoli alla classe capitalista competono con quelli favorevoli alla classe lavoratrice è finita”.

Come si vede da quest’ultima scontata notazione, non ci sono rivelazioni sconvolgenti nell’articolo di Varoufakis. Però, che quello che si può considerare un autorevole ideologo del progressismo globale scriva, in uno dei luoghi deputati alla promozione di questa ideologia, che il capitalismo è morto, la politica pure mentre vive il “tecno-feudalesimo” e ci fa ballare tutti quanti deve fare riflettere. Sia perché proprio questo “tecno-feudalesimo” si riconosce nell’ideologia del progressismo globale, tanto da essersi posto sin dall’inizio all’avanguardia della campagna per la damnatio memoriae di Donald Trump, sia perché è ovviamente artificioso confinare questa nuova “modalità economica” alle proverbiali Amazon e Facebook e alle Big Tech in genere. Ma questo Varoufakis lo sa benissimo, si è già notato che l’uomo è assai intelligente; infatti, circoscrive all’economia e al mercato quello che dovrebbe essere un discorso sul potere (Varoufakis alla parola “potere” preferisce un più delicato “relazioni tra gli uomini”), un discorso da far cominciare non solo prima della crisi del 2008 ma anche prima del collasso del sistema di Bretton Woods (1971). Probabilmente si dovrebbe partire dalla decisa presa di distanza, nel secondo dopoguerra, delle grandi università nordamericane dall’influenza sino allora determinante delle grandi famiglie storiche del capitalismo Usa e da quella “rivoluzione manageriale” che ha sancito la separazione della proprietà dal controllo delle grandi imprese, analizzata all’inizio degli anni 40 del secolo scorso dall’ex trotzkista americano James Burnham.

Ma per affrontare questo argomento è ancora, e sarà forse sempre, troppo presto, perché è un discorso complicato che investe direttamente la burocrazia, sia dal punto di vista dell’organizzazione della grande impresa, sia dal punto di vista dell’evoluzione dei mercati e dei regimi economici in genere nel corso degli ultimi ottant’anni, alla luce del limpido insegnamento di Natalino Irti sulla loro artificialità, giuridicità e storicità (si tenga presente, per evitare malintesi sempre possibili quando si nomina la burocrazia, che l’università e la banca centrale, per dirne solo due, sono corpi burocratici o, se si preferisce, tecno-burocratici).

Ma la burocrazia è la sola classe sociale che nella storia non ha mai perso nessuna battaglia, proprio perché non ha mai consentito a nessuno di riconoscerla come tale. Quindi è meglio seguire l’esempio di Varoufakis che prudentemente vola molto alto e conclude il suo scritto evocando il possibile botto rivoluzionario degli “sfruttati del tecno-feudalesimo (come dire miliardi di consumatori in tutto il mondo, ndr) con la sconvolgente disuguaglianza” solo che questi trovino una “voce collettiva”. I salmi devono sempre finire in gloria.

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