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I dazi di Trump sono un boomerang per gli Stati Uniti?

Se la politica dei dazi non troverà un luogo della mediazione, più che l’effetto-domino l’America di Trump rischia l’effetto-boomerang. Il taccuino di Guiglia.

I dazi di Donald Trump sono ovviamente imparagonabili ai missili di Vladimir Putin. Ma molto simile è l’esito politico dirompente delle misure di anacronistico eppur oggi devastante protezionismo attuate o anche soltanto annunciate dal presidente nordamericano. Devastante non solo per chi quei dazi fuori dal mondo è destinato a subirli, ma anche per chi li attua o minaccia di attuarli: nell’era globale basta la parola. E la parola della Casa Bianca è un po’ più uguale delle altre, per sconvolgere i mercati e colpire interi comparti produttivi.

Ma come si fa a far valere nel nostro tempo digitale e dell’intelligenza artificiale la mentalità doganale teorizzata due secoli fa? Significa non aver ben chiaro quanto l’economia contemporanea sia indissolubilmente legata fra nazioni e mercati persino di continenti lontani fra loro. Con il classico effetto-domino sempre dietro l’angolo.

Oppure significa, e sarebbe peggio, comprendere perfettamente il danno nell’ostacolare l’altrui concorrenza sul mercato nazionale con decisioni unilaterali e miopi, e infischiarsene.

Ma “America first”, il legittimo e patriottico orgoglio sventolando il quale Trump ha convinto gli americani e vinto le elezioni, non può voler dire distruggere il resto dell’universo all’insegna di una visione del mondo arrogante e di un isolazionismo prepotente.

Intanto lui s’accontenta, come ha candidamente minacciato -salvo successiva marcia indietro-, di voler distruggere l’industria dell’auto in Canada.

Intendeva raddoppiare i dazi sui prodotti in acciaio e in alluminio provenienti da quel Paese confinante. Una sfida commerciale che potrebbe salire, dunque, a tariffe al 50% in risposta al 25% dei contro-dazi canadesi (provincia dell’Ontario) imposti sull’energia elettrica venduta agli Stati Uniti. Poi sembra che le due parti ci abbiano ripensato. Almeno per ora.

Ma la politica doganale nell’epoca supersonica può creare solo la guerra delle ripicche a chi le spara e le applica più grosse. Ad ogni azione corrisponde la reazione in uno scontro destinato a finire male e a male parole per entrambi i contendenti.

Se poi la bega di confine in Nord America, già grande di suo, s’estende alla Cina, come sta avvenendo, e all’Europa, come potrebbe presto avvenire, saranno dazi amari per tutti.

Tuttavia, l’impatto delle nuove tariffe sul Canada (e sul Messico), finirebbero per colpire anche gli statunitensi per il conseguente rincaro dei prezzi. Sarebbero i consumatori a pagare il gioco pericoloso delle ritorsioni. E poi i rischi dell’inflazione e della recessione in un Paese, peraltro, con un altissimo debito pubblico.

Paradossalmente, persino i più ricchi sostenitori della campagna presidenziale, a cominciare da Elon Musk, hanno già perso in Borsa 209 miliardi di dollari.

Per primi i miliardari provano i risvolti perversi, ma inevitabili del protezionismo cieco in un mondo senza frontiere.

Se la politica dei dazi non troverà un luogo della mediazione, che è il tipico campo della politica, più che l’effetto-domino l’America di Trump rischia l’effetto-boomerang.

(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
www.federicoguiglia.com

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