I fatti sono fatti. Sono oggettivi. Nelle democrazie liberali, i media dovrebbero sempre comunicarli per quello che sono, piacciano o no. Beninteso, sono troppi per poter essere tutti diffusi al pubblico. Ne è inevitabile la selezione. Su essa influiscono i preconcetti e le preferenze politiche e anche ideologiche di chi la effettua. Egli tende a tacere o a neutralizzare, collocando ad esempio nelle ultime pagine dei giornali, le notizie che non corrispondono alle sue convinzioni e interessi. Il pluralismo dell’informazione è perciò essenziale per garantire ai lettori o ai telespettatori una certa libertà di giudizio. Lo stesso avviene quando un evento viene collocato nel suo contesto. Anche in questo caso, la “Verità” è illusoria. Occorre limitarsi a ridurre le manipolazioni e l’impatto delle emozioni e dei preconcetti dei comunicatori, indipendentemente dal fatto che le fake news siano diffuse deliberatamente o in buona fede, per semplice ignoranza dei fatti.
L’interpretazione degli avvenimenti, cioè l’opinione espressa sui loro significati, veridicità e implicazioni, risente inevitabilmente delle convinzioni, interessi e preconcetti di chi la elabora. Necessariamente è sempre soggettiva. Si presta alla diffusione delle proprie idee, alla propaganda e alla disinformazione. Quando non è inconsapevole, può essere strumento di operazioni d’influenza, funzionali agli obiettivi di una guerra delle informazioni.
L’infowar è vecchia come il mondo. Domina la politica, il commercio e le relazioni sociali sia di competizione che di cooperazione. Nei rapporti fra gli Stati, spesso le manipolazioni sono organizzate in strategie comunicative, coerenti con obiettivi di tipo politico, militare o commerciale (le loro logiche sono analoghe, anche se le tattiche sono differenti). Alla loro base, si colloca la definizione di obiettivi e di strategie per conseguirli. In campo comunicativo, consistono in idee e parole d’ordine, definite da specialisti per indurre il pubblico a comprare un prodotto o per orientarlo a favore dei propri interessi politici. Basti pensare al sistema Prisma, organizzato dall’Italia negli anni trenta dello scorso secolo per influenzare i movimenti pacifisti francesi e britannici.
Con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’infowar è divenuta in tutti i settori più efficace del passato. Anche in economia, come abbiamo dimostrato con il prof. Paolo Savona una decina di anni fa in un saggio sull’“Intelligence Economica”. L’efficacia dell’infowar nella competizione strategica è stata ampiamente dimostrata nella guerra fredda, nelle “rivoluzioni colorate” e nelle “primavere arabe”. Soprattutto le ultime due, con la diffusione dei social media, hanno posto in evidenza la superiorità delle “reti orizzontali” rispetto alla “piramidi verticali” delle istituzioni, in termini di rapidità di mobilitazione e di flessibilità.
In politica estera, le operazioni d’influenza sono sempre complementari della Public Diplomacy”. Un esempio della sua importanza è il Freedom of Internet Act di Barack Obama. Esso si prefigge di consolidare l’efficacia dell’influenza comunicativa degli USA negli altri paesi. Quelli autoritari si difendono bloccando i media che non controllano, in modo da proteggere il loro potere dall’influenza degli oppositori interni ed esterni.
Le democrazie non possono limitare la libertà d’opinione e di comunicazione. Sono perciò vulnerabili alle manipolazioni organizzate, di cui la Russia è il campione a livello mondiale. La manipolazione a livello politico-strategico avviene con la diffusione da parte di centri d’influenza di “parole d’ordine” volte a creare “verità” con la loro ripetizione. Esse sono elaborate da specialisti della comunicazione e sfruttano vulnerabilità, aspettative ed emozioni delle opinioni pubbliche dei vari paesi sia alleati che avversari. Sfruttano il fatto che gli comunicatori “in buona fede” non hanno di solito una conoscenza specifica delle materie che trattano e né il tempo né la voglia d’informarsi adeguatamente.
L’uso strategico dell’informazione è particolarmente diffuso nei conflitti. Le guerre con i loro massacri e distruzioni determinano forti emozioni; i fatti sono mantenuti segreti; suscitano opposizioni alle scelte dei governi (le invettive contro la guerra sono vecchie come la guerra stessa). Si prestano a ogni tipo di manipolazione della realtà anche perché, come ha detto Churchill, “quando tuona il cannone, la verità fugge”.
Lo si registra in tutti i paesi per il conflitto in Ucraina. Il fenomeno è particolarmente accentuato in Italia, per la sua strutturale litigiosità, il suo ridotto interesse per la politica estera e gli affari militari e per la debolezza del suo sistema politico, che la rendono “l’anello debole” dell’Occidente. Ne sono derivate le polemiche sulla c.d. “lista di proscrizione” del Corriere della Sera e la diffusione delle notizie più strampalate nei Talk Show. Essa dimostra come pochissimi degli intervenuti possedessero una conoscenza adeguata dei fatti e si basassero esclusivamente sul “sentito dire”, o su loro preconcetti, o sulla ricerca affannosa di uno scoop. In sostanza, manipolavano i fatti, non per scopi reconditi, ma perché non li conoscevano.
Un sistema, che potrebbero adottare i responsabili dei media per aumentare la loro resilienza alle disinformazioni volute o inconsapevoli, sarebbe di obbligare i loro operatori a distinguere esplicitamente i fatti dalle opinioni e a indicare le fonti utilizzate per i primi. Non c’è però da farsi molte illusioni sull’efficacia di tale misura. I media perderebbero parte della loro attrattività. La conseguente riduzione dell’audience causerebbe loro danni economici. Ma qualcosa deve essere fatto.