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Perché Amato non è tanto amato nel centrodestra

Dibattito e reazioni di esperti e giuristi sulla riforma costituzionale del governo. Compreso il commento di Giuliano Amato... Il corsivo di Battista Falconi

La caratura di Giuliano Amato abbiamo potuto misurarla per due volte in pochi giorni. La prima dopo la sfuriata pubblica di Giorgia Meloni contro Alberto Barachini, il Sottosegretario all’editoria che aveva nominato inopinatamente e anche ridicolmente l’ottantacinquenne Amato a capo di una commissione sull’intelligenza artificiale senza avvertire il Presidente del Consiglio. A quel punto l’“ex tutto”, nel curriculum di Giuliano Amato manca solo la presidenza della sua bocciofila, avrebbe potuto onorevolmente rassegnare le dimissioni, che invece ha solo timidamente ipotizzato, assumendo un incarico per il quale si fatica a capire quale competenza possa avere.

COSA HA DETTO AMATO SULLA RIFORMA COSTITUZIONALE DEL GOVERNO

La seconda dimostrazione della sua supponenza l’ha data rilasciando a Repubblica un’intervista critica contro l’ipotesi di riforma istituzionale e costituzionale avanzata dal Governo, che per essere eufemistici palesa una certa mancanza di opportunità e di riconoscenza. Inopportunità e ingratitudine che colpiscono ancor più perché, nella stessa giornata, sui giornali compare l’intervista di Francesco Talò, il capo dell’ufficio diplomatico di Palazzo Chigi che si è dichiarato colpevole del pasticcio, fastidioso anche se non così clamoroso, della finta telefonata con il presidente africano nella quale è cascata Meloni. Talò si è fatto crocifiggere pubblicamente, assumendosi in pieno la propria responsabilità: da “carabiniere”, come sottolinea lui stesso.

Nel merito, le critiche di Amato alla riforma si associano a quelle di Marcello Pera, che colpiscono perché si tratta di un ex presidente del Senato di centro-destra, e di altri esperti. Si legge, a sostenere il disegno di legge del governo, quasi soltanto il costituzionalista Francesco Saverio Marini. Più della contrarietà di alcuni esperti, su questo tema colpisce però la perplessità tra gli altri espressa, con la consueta lucidità, da Luca Ricolfi; l’idea che, in fondo, ingegneri e architetti del diritto si stiano divertendo a dibattere su un tema che non andrà mai a gol, come accaduto già in passato. Ha però ragione anche Meloni nel dire che questa è la “madre di tutte le riforme”: se è forse eccessivo l’automatismo da lei stabilito tra mancanza di stabilità governativa e scarsa crescita dell’economia nazionale, ha senz’altro ragione il ministro di competenza Casellati quando, molto semplicemente, spiega che un governo senza certezza di durata almeno quinquennale ha le armi spuntate in qualunque proposta migliorativa intenda attuale.

IL VANTAGGIO DI MELONI

Peraltro, rispetto ai suoi predecessori, Meloni gode del vantaggio non soltanto di una maggioranza abbastanza ampia e coesa, checché se ne dica, ma anche di un consenso popolare che sta andando ben al di là della consueta durata della cosiddetta “luna di miele”. Quindi ce la potrebbe fare a procedere nel percorso, piuttosto complesso, che passa per dibattito parlamentare, leggi ordinarie, referendum, valutazioni della Consulta, eccetera. Viene solo da chiedersi che fine abbia fatto il confronto tra costituzionalisti che era stato organizzato tempo fa al Cnel per mettere a fattore comune le diverse posizioni sul tema e ridurre tempi e farraginosità dei passi successivi.

Un tentativo di condivisione che ora proseguirà in Parlamento e che dovrebbe portare a concretizzare una riforma che, come Meloni evidenzia, non è solo un’intenzione ideologica e un impegno programmatico dell’esecutivo, ma un’esigenza profonda della realtà espressa dai cittadini, i quali indicano l’autorevolezza del capo dello Stato, la certa durata del governo eletto e il mantenimento degli impegni da quest’ultimo assunti in campagna elettorale quali punti fondamentali di un regime politico giusto, equilibrato e però anche efficiente e rispondente ai tempi estremamente dinamici che stiamo vivendo. Il governo, di suo, ci sta mettendo una certa disponibilità al dialogo – il cui limite per Meloni è sempre evitare meline, vedi salario minimo – e la versione “minimale” del progetto presentato, che poggia molto sulla Costituzione esistente per ridurre il rischio di strappi e traumi, anche a costo di perdere qualcosa in coerenza ed efficacia.

Naturalmente, tutti sanno che l’unico modo per portare alle estreme conseguenze le esigenze cui la riforma cerca di rispondere sarebbe quello di abolire il potere legislativo, ma nessuno lo può dire in modo esplicito, altrimenti le già diffuse accuse di buonapartismo assumerebbero toni ancor più scandalistici. Inoltre, prendere atto in modo definitivo e pienamente consapevole della vetustà dell’attuale parlamentarismo comporterebbe l’ammissione di altri anacronismi da correggere. Per esempio, quello di un sistema giudiziario che protrae l’iter per arrivare a definitiva condanna o assoluzione in tempi talmente lunghi da superare talvolta la vita fisica delle persone coinvolte, lasciando così colpevoli impuniti oppure innocenti sospesi al sospetto, tant’è che ormai i procedimenti penali e civili si confondono con i cold case che appassionano i media. Sarebbe poi parimenti da statuire in modo esplicito l’impraticabilità del sistema previdenziale e pensionistico, rispetto all’innalzamento dell’età media e della longevità e, quindi, al rapporto sempre più sfavorevole tra contribuenti e assistiti.

Cosa stranota ma sempre lamentata come se fosse un difetto del sistema e non la sua sostanza, alla quale si dovrebbe abbinare l’altra ovvia considerazione relativa al sistema sanitario pubblico, così come abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo per qualche decennio, che non ha più la possibilità di sostenersi per le medesime ragioni demografiche e anagrafiche. Una popolazione più vecchia è evidentemente una popolazione più malata stante che, per dirla con Marcello Marchesi, la vita è una malattia mortale e incurabile.

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