Skip to content

lipsia

Cosa è rimasto a Lipsia della riunificazione tedesca

Lipsia fu una città decisiva nel 1989, anno della riunificazione della Germania. Oggi ne raccoglie i frutti amari. Seconda parte del racconto di Pierluigi Mennitti.

Oggi è diventato un museo, questo imponente palazzo dall’angolo arrotondato al numero 24 del Dittrichring, l’anello stradale realizzato a inizio Novecento che circonda quel che è rimasto del vecchio centro medievale di Lipsia. Si chiama Runde Ecke, letteralmente “Angolo rotondo”, anche se di arrotondato questo edificio non ha nulla: il suo passato racconta piuttosto storie affilate e taglienti. Prima del 1989 era la sede locale della Stasi, una sede importante perché da qui il servizio segreto della Germania orientale controllava ogni respiro di una fondamentale regione come la Sassonia.

Gli spioni della Ddr ne avevano preso totale possesso solo nel 1950. Nei cinque anni precedenti avevano dovuto condividere le stanze con una succursale del ministero degli Interni sovietico, il quale era a sua volta subentrato alle truppe americane che avevano liberato Lipsia e che per qualche mese insediarono qui un loro quartier generale, prima di consegnare chiavi e destini della città all’Armata Rossa.

E prima ancora era stato più semplicemente la sede commerciale di un’azienda assicurativa tedesca. Ma è nell’anno di grazia 1989 che questo palazzo torna al centro degli eventi. È il 4 dicembre e nella rivoluzione pacifica che sta portando alla caduta della Ddr Lipsia riprende la scena a Berlino. Il muro è caduto da poco meno di un mese e gli eventi scivolano via così velocemente che l’illusione dei dirigenti della Ddr di poter gestire una nuova fase politica si rivela di giorno in giorno impraticabile.

La Stasi però è fatta di altra pasta. Se la Sed (il partito del regime) si squaglia, i servizi segreti non stanno a guardare. Lavorano, come sempre. Le notti della Germania orientale sono affumicate dal fumo che esce dai camini delle centrali operative. Non è il carbone che brucia, sono gli atti e i dossier redatti nel corso degli anni dal più pervasivo servizio di sicurezza che sia mai esistito. Il tempo stringe, la situazione precipita, non resta che cancellare tutto, il più velocemente possibile, a cominciare dagli incartamenti più imbarazzanti.

I cittadini di Lipsia avevano mostrato con la manifestazione del 9 ottobre che il re era nudo. Adesso è ora di incalzare i signori del sospetto, gli uomini della Stasi. Anche i cittadini lottano contro il tempo: gli atti devono essere salvati, tutti devono poter accedere ai propri incartamenti, leggere, sapere, scoprire cosa c’era di tanto cospirativo nell’imbucare una lettera nella buca postale, nell’invitare amici a cena, nel raccontare qualche barzelletta sui leader del regime. Tutto era stato filmato, scritto, riportato in migliaia di libretti numerati.

La Stasi, “scudo e spada del partito”, impiegava novantasettemila addetti per tenere sotto controllo diciassette milioni di cittadini. Gli informatori erano 170 mila ed erano nascosti dappertutto: i padri spiavano i figli, le mogli i mariti, i datori di lavoro gli impiegati, i dirigenti d’azienda gli operai. Il nemico poteva essere il vicino di casa, il compagno di scuola, la maestra d’asilo, il collega d’ufficio. Uno spione ogni sei cittadini e mezzo era il rapporto della paranoia. Le vite degli altri scorrevano innocue e controllate su centinaia di monitor in bianco e nero, visionate ventiquattro ore su ventiquattro da solerti guardoni. Le telecamere erano ovunque, occultate con trucchi degni di un film di James Bond: nelle camere da letto, nei tinelli, nei negozi, agli incroci delle strade, sulle piazze, nei circoli carbonari dell’opposizione, nelle chiese, nelle kneipe, allo stadio.

Mentre la politica schizzava incerta come una palla da flipper in attesa del tilt, la Stasi bruciava e cancellava tutto. In un angolo dell’attuale museo, in cui è conservato tutto quel che fu possibile salvare dalla furia distruttiva degli spioni, attira l’attenzione un grande recipiente di latta, con un enorme imbuto in cima e una griglia rotonda al lato dello scarico. Sembra un enorme macchina simile a quella che usano i macellai per macinare la carne. Serviva per tritare la carta, enormi quantità di carta. Gli ufficiali della Stasi avevano capito prima dei politici che tutto era perduto, le macchine che si trovavano nelle sedi centrali e regionali sbuffavano a pieno regime.

In quel 4 dicembre 1989  molte cose erano già cambiate, ma il tempo dentro il palazzone tozzo e squadrato al numero 24 sul Dittrichring sembrava essersi fermato. Qui la Stasi è ancora padrona del campo. E lavora, notte e giorno, bruciando e distruggendo carte e prove.

Il palazzo si chiama Runde Ecke proprio perché la solidità dell’edificio è ingentilita da un arrotondamento curioso ad uno degli angoli. Qui si trova l’ingresso principale, una morbida curva che incastona il portone e due colonne che donano solennità e incutono timore. Qui si danno appuntamento gli abitanti di Lipsia. Sanno che gli uomini della Stasi stanno cancellando ogni traccia e vogliono impedire che l’azione prosegua. È l’ultimo fortino del regime, quello decisivo. Ci sono gli attivisti del Neues Forum e di molte altre organizzazioni nate spontaneamente nelle settimane delle proteste. “Arriviamo davanti alla sede – raccontava qualche anno fa Irmtraut Hollitzer, a lungo direttrice del museo – e ci stringiamo con le mani l’un l’altro, circondandola con una catena umana. Poggiamo le candele sui gradini d’ingresso e intimiamo di aprire il portone, di farci entrare. Avevamo imparato la lezione pacifista, non avevamo più paura di nulla, semplicemente nessun atto doveva essere più distrutto”.

La resistenza dura poco, gli impiegati asserragliati nella Runde Ecke hanno paura, cedono, aprono il portone, i cittadini espugnano l’odiata sede e irrompono nelle stanze, invadono le celle dove venivano interrogati i sospetti, si impossessano dei dossier rinchiusi negli archivi. “Costituiamo un comitato civico che da quel momento gestisce il palazzo e gli archivi. Ma le pressioni non finirono quella notte, gli uomini della Stasi venivano ogni giorno, provavano a rientrare in possesso della struttura, ci minacciavano. Abbiamo dovuto chiedere aiuto alla polizia che aveva interesse a dimostrare di non essere collusa con la Stasi e di stare ora dalla parte del popolo. E ce l’abbiamo fatta”.

Di fianco alla macchina trita-carta ci sono tre gigantesche palle di cartapesta. Sembrano quelle sculture artigianali che si trovano nei musei di arte contemporanea. Sono gli atti distrutti, fogli di carta impastati con acqua e farina, ormai illegibili, duri come era la vita ai tempi della Stasi. Il frutto amaro di quello che i cittadini di Lipsia non sono riusciti a preservare.

Torna su