Chi si fosse aspettato lodi ed entusiasmi da parte del ministro delle Finanze tedesco per il rapporto di Mario Draghi sulla competitività avrebbe peccato quantomeno di ingenuità. Che la proposta di investire almeno 800 miliardi di euro in più all’anno per evitare il declino sociale, economico e ambientale, soldi che gli Stati nazionali dovrebbero girare all’Unione europea non poteva trovare una calda accoglienza da parte di un Christian Lindner, impegnato in questi giorni su due fronti interni.
Quello finanziario, con il dibattito in aula sulla legge di bilancio per il 2025, una legge di compromesso fra le esigenze sempre più divergenti delle tre forze di governo, ma sul quale il ministro liberale sta provando a tenere fermo il cappello del tetto all’aumento del debito. E quello politico-elettorale, con il voto fra poco più di una settimana nel terzo Land orientale di questa tornata, il Brandeburgo. Dopo le due fragorose scoppole in Sassonia e Turingia, dove l’Fdp non ha raggiunto la soglia di sbarramento, anche dappe parti di Potsdam si prospetta un fiasco elettorale: i sondaggi danno i “gialli” di Lindner al 2% (la soglia è il 5), di fatto per il ministro, che è anche il leader finora indiscusso del partito, si tratta di limitare i danni e contenere la sconfitta.
Inevitabile quindi che Lindner si rifugi nella comfort zone del rigorismo tedesco: no a nuovo debito comune che rischia di portare a un indebitamento eccessivo l’Unione europea, no a sforamenti interni perché la Germania deve dare l’esempio e rispettare per prima le regole, quelle proprie e quelle europee, il freno al debito che vieta allo Stato di prendere in prestito più dello 0,35% del suo Pil ogni anno e il patto di stabilità continentale. Ogni Stato membro deve continuare ad assumersi le responsabilità delle proprie finanze pubbliche, ha chiuso Lindner il suo intervento parlamentare, replicando indirettamente a una parte delle proposte di Draghi.
Più Potsdam (intesa come capitale del Brandeburgo) che Bruxelles dunque nella testa del leader liberale tedesco. È d’altronde quanto sta accadendo per tanti, troppi temi politici al momento sul tappeto.
L’immigrazione è diventata un tema centrale, assieme alla sicurezza, da quando si è capito che la sua pessima gestione sta ingolfando le capacità dei comuni e ingrossando le urne elettorali dei partiti anti-élite (AfD e ora anche il neonato Bsw), ma mentre falliscono uno dopo l’altro i vertici bipartisan fra maggioranza e opposizione e all’interno del governo i tre partiti tirano la coperta ognuno dal proprio lato, la ministra socialdemocratica dell’Interno estende la misura dei controlli alla frontiera, validi ai confini sensibili del sud e dell’est, anche a quelli settentrionali e occidentali: Francia, Belgio, Olanda e Danimarca.
Una misura che ha suscitato scalpore, anche per il valore simbolico di rottura verso le regole di Schengen, ma che ha più un chiaro sapore elettoralistico: i flussi migratori da ovest sono praticamente inesistenti, le barriere poste in quella direzione non avranno alcun effetto pratico sui problemi che la componente incontrollata del fenomeno sta recando alla Germania.
Ma anche gli stessi controlli sui confini più sensibili, con Polonia e Repubblica Ceca a est, Austria e Svizzera a sud, sono abbastanza blandi. Chi scrive ha attraversato non più di due settimane fa il confine austro-tedesco in treno e i controlli di polizia e dogana non sono stati più invasivi e stretti di quelli che svolgono anche i poliziotti italiani al loro confine. Un paio di poliziotti salgono sui vagoni nell’ultima stazione austriaca, sbirciano le facce dei viaggiatori, quando hanno un sospetto chiedono i documenti (quindi controlli random), poi scendono alla prima stazione sul lato tedesco.
Eppure la ministra dell’Interno ha posto grande enfasi sui controlli allargati: al momento è l’unica misura (seppur propagandistica) a essere stata adottata dal governo. La speranza è che aiuti il candidato e presidente uscente socialdemocratico del Brandeburgo a contenere l’avanzata di AfD e a essere confermato nella sua carica al voto del 22 settembre.
Con una politica tutta riversa sui propri impegni elettorali e problemi economici (il dilagare della crisi dell’industria automobilistica su tutto), difficile attendersi altro che risposte di circostanza a piani europei. E questo al netto della eco spropositata con cui in Italia si commenta qualsiasi prodotto della ditta Draghi. Anche la stampa tedesca ha riportato i punti principali del piano dell’ex presidente della Bce, riservandogli qualche sporadico commento. Come quello nel seguitissimo telegiornale della prima rete pubblica Ard, affidato alla corrispondente a Bruxelles Sabrina Fritz. La quale, dopo essersi chiesta perché proprio la cifra di 800 miliardi di euro all’anno sarebbe quella giusta per riportare l’economia europea sui corretti binari e osservato che il fondo post-covid è più o meno di quella portata, sostiene che il problema non è tanto nei soldi, quanto nella mentalità che alberga nei responsabili dell’Ue, a ogni livello. “Per i fondi del piano di ripresa dopo la pandemia i processi sono troppo complicati e i progetti a volte non sono realistici. Perché dovrebbe essere diverso per un fondo Draghi?”, si chiede la commentatrice di Ard. La risposta è che “l’Europa ha un problema di mentalità: condizioni burocratiche invece di cambiamento, stallo invece della voglia di correre rischi. I cambiamenti sono percepiti come un peso e non come un’opportunità”. E chi è responsabile di questo stallo, ha credibilità per offrire medicine che guariscano? Per Fritz non proprio: “Sfortunatamente, la Commissione europea ha contribuito a questa paralisi negli ultimi anni, il buon Green Deal è rimasto schiacciato sotto una montagna di carta”, ha concluso, “Draghi, in qualità di ex capo della Banca centrale europea, e von der Leyen, in qualità di presidente della Commissione europea, hanno esercitato per anni molta influenza in Europa e sono pertanto corresponsabili della denuncia di difetti odierna. Ma i veri responsabili sono nelle capitali europee, che vorrebbero che il continente continuasse come è sempre stato”. In fondo, per i capi di partito tedesco il Brandeburgo e non Bruxelles val bene una messa.