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Perché in Germania l’industria fa piangere l’economia

La recessione confermata dal governo anche per il 2024 alimenta un dibattito in Germania sulle cause dell'industria fiacca. Fatti, approfondimenti e analisi.

Dopo le revisioni dei centri di ricerca economica ora anche il governo della Germania ha issato bandiera bianca e ha corretto al ribasso le stime del Pil per il 2024. Adesso Berlino prevede una contrazione dello 0,2%, il che significa recessione per il secondo anno consecutivo, dopo il -0,3% di Pil del 2023. La correzione è di mezzo punto percentuale, giacché la stima precedente era di un +0,3%.

Per ritrovare un po’ di ottimismo, il ministero dell’Economia deve affidarsi a previsioni di più lunga data, quelle per il 2025, per le quali Berlino stima un aumento dell’1,1% e del 2026, quando l’asticella dovrebbe fermarsi al +1,6%. Ma anche per quest’anno le previsioni a medio e lungo termine avevano previsto una ripresa che non c’è stata. La fiducia nel futuro è ingrediente necessario, lo scetticismo però è ammesso.

Da un lato il governo spera che i consumi privati riprendano a crescere e che riprendano le esportazioni dell’industria all’estero per permettere una ripresa dei loro investimenti. D’altra parte l’esecutivo punta sul suo pacchetto di crescita con sgravi fiscali, incentivi al lavoro e riduzioni dei prezzi dell’elettricità, cui stanno lavorando, non senza difficoltà e contrasti, i ministri competenti.

Il ministro dell’Economia Robert Habeck si è sforzato a diffondere fiducia nonostante le deludenti previsioni economiche nella presentazione dei dati ieri a Berlino: “La Germania è un paese pieno di forza”, ha detto, “le condizioni generali sono tutt’altro che soddisfacenti, ma ne usciremo”.

Habeck ha evidenziato dei progressi in alcuni dei fattori che finora hanno pesato sull’economia. Il governo federale ha corretto tra l’altro le sue aspettative di inflazione al 2,2%, uno 0,2 in meno rispetto alla stima precedente. E dal 2025 sarà raggiunto l’obiettivo di stabilità della Banca centrale europea. Se l’inflazione dunque può dirsi domata, la speranza di una ripresa dei consumi è più concreta, anche a seguito della crescita dei salari alla fine di importanti cicli di trattative sindacali: più soldi nelle tasche dei cittadini non hanno finora prodotto la scossa auspicata, l’aumento negli ultimi mesi c’è stato, ma è apparso quasi impercettibile e non è bastato a invertire la situazione. Però la fiducia resta, nel combinato di consumi e diminuzione dei tassi di interesse.

Tuttavia, oltre agli aspetti contingenti, l’economia tedesca sconta ormai la pressione di sfide strutturali, a lungo termine, sulle quali gli analisti dibattono ormai da mesi. Uno è il ritardo sul versante dell’innovazione. Ora un po’ tutti gli economisti lanciano l’allarme sulla perdita di competitività del sistema industriale tedesco rispetto ai più agguerriti concorrenti internazionali, ma è da tempo che il paese soffre per aver mancato l’aggancio della modernizzazione. Ora ci si accorge con ritardo che fare affidamento sulla forza delle esportazioni non basta più ad alimentare il boom, anzi quella stessa forza si è affievolita: non c’è un settore innovativo in cui le imprese tedesche primeggino. Questo governo era nato per ridare impulso alla modernizzazione (a cominciare dalla rivoluzione digitale), ora Habeck è costretto ad ammettere che “i punti deboli dell’innovazione di questo paese non sono stati risolti”.

L’industria portante dell’automobile è affaticata innanzitutto dall’incapacità di stare al passo con l’innovazione sull’elettrico della Cina e degli Stati Uniti, e si trascina nella crisi la lunga filiera delle aziende fornitrici. Di ieri (lo stesso giorno in cui il governo presentava i suoi deludenti dati) è l’allarme di Achim Dietrich, capo del consiglio di fabbrica di ZF, il secondo fornitore automobilistico tedesco, che parla di “panico” nelle stanze dirigenziali dell’azienda e rimprovera i costosi consulenti McKinsey arrivati per curare il malato con robuste politiche di risparmio. Un cane che si morde la coda, denuncia Dietrich: “Le loro misure di riduzione dei costi stanno assottigliando i profitti e mettendo a rischio il futuro”.

C’è il fatto nuovo del caro energia, che pesa su aziende abituate ad avere su quel terreno un vantaggio competitivo: la guerra in Ucraina ha fatto saltare i tavoli con la Russia, gli analisti internazionali sostengono che la vera sconfitta della guerra sia finora proprio la Germania. Le aziende emigrano, anche nei paesi vicini come la Polonia, oppure sono attratte dalla nuova sfida americana, sull’onda delle politiche protezioniste di Joe Biden e del suo Inflation Reduction Act.

C’è la carenza di manodopera qualificata, ormai diffusa in tutti i settori, con il paradosso che anche quando le aziende potrebbero aumentare i ritmi di produzione, sono costrette a tenere il passo per mancanza di lavoratori. Infatti la crisi cresce, ma la disoccupazione no. In più, nelle regioni orientali dove l’onda lunga delle migrazioni interne degli anni Novanta e Duemila ancora pesa sui numeri della popolazione attiva, la crescita di sentimenti xenofobi peggiore le cose e tiene lontani potenziali lavoratori stranieri.

Infine la burocrazia, un tempo punto di forza della macchina amministrativa tedesca. Era complessa ma funzionale ed efficiente, oggi è solo complessa e costosa.

A tutto questo il governo in carica non è riuscito a dare le risposte giuste. Il clima con gli imprenditori si è andato deteriorando di mese in mese, le tensioni sociali sono diventate politiche, l’est risulta sostanzialmente ingovernabile, se non con maggioranze più raffazzonate di quella che governa a livello federale.

Le stime del governo, anche per l’auspicata ripresa dei prossimi due anni, restano leggermente più ottimistiche di quelle degli istituti di ricerca. Il rischio è di sopravvalutare il piano per la crescita cui l’esecutivo sta lavorando. Si chiama Wachstumsinitiative e per Habeck “è l’ultimo tentativo di fare davvero dei progressi e uscire dai guai”. “Ma ciò presuppone che queste misure arrivino effettivamente”, ha proseguito il ministro, “e non siano sminuzzate e triturate come avvenuto per altre iniziative analoghe”.

Gli obiettivi si ripetono in verità di piano in piano, di iniziativa in iniziativa: assicurare alle aziende certezze nella pianificazione, sveltire i meccanismi di autorizzazioni, semplificare la burocrazia e poi sussidi pubblici mirati, come quello proposto dallo stesso Habeck per limitare i costi delle reti di trasmissione elettrica per le aziende: “Non può essere che la competitività delle aziende tedesche ne risenta perché ora stiamo compensando le carenze nella spesa per le infrastrutture”, ha detto il ministro dell’Economia.

Che però sul tema della spesa deve vedersela con il suo collega delle Finanze, il liberale Christian Lindner. Come Habeck anche Lindner ha problemi di voti e consenso, anzi l’Fdp lotta per la sopravvivenza e rischia seriamente di non raggiungere la soglia minima per entrare nel prossimo Bundestag. E punta tutto sul freno all’indebitamento, puntando su una politica di austerity che cozza contro i propositi dei verdi. Anche Lindner ha commentati le fosche previsioni di crescita tedesche chiedendo un cambio di rotta nella politica economica. “Una ripresa dipende dalla fiducia, dalla motivazione, dal rischio imprenditoriale e dalla forza innovativa”, ha detto Lindner, “la nostra economia è da anni legata alla burocrazia e agli oneri fiscali, ma, a dire il vero, anche alla tutela pianificata del clima e alle crescenti politiche di ridistribuzione. Chi vuole prosperità e sicurezza sociale deve trovare la forza di cambiare rotta”. E il problema è anche qui: ognuno nel governo tira la fune dalla propria parte e Olaf Scholz nel mezzo non sembra in grado di afferrare le redini. Così molti, nel mondo industriale, pensano a tenere duro per altri dodici mesi e provare ad affidare alle elezioni fra un anno il motore inceppato alle cure di Friedrich Merz.

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