Dopo la Francia, adesso è la volta della Germania. A Parigi a perdere il posto fu Michel Barnier, sostituito, difficile dire per quanto tempo, da François Bayrou che intanto non lascia la carica di sindaco di Pau. A Berlino, invece, è stata la volta di Olaf Scholz, semplicemente sfiduciato dal Parlamento tedesco, e quindi costretto a dimettersi dall’incarico di Cancelliere. Si voterà il prossimo 23 febbraio. Per Parigi, invece, è ancora troppo presto per dire se e quando questo avverrà. Che relazione esiste tra fatti che si sono svolti a poco più di un’ora di volo di distanza. Una semplice coincidenza? L’improvviso diffondersi del morbo dell’instabilità? Voglia di emulazione? La risposta è al tempo stesso più semplice e più complessa. Il collasso ha riguardato l’intero “asse franco – tedesco” venuto giù a seguito di un micidiale intreccio tra crisi economica e politica. Dal quale non sarà facile sortire.
È sorprendente considerare come tutto sia iniziato all’indomani del varo delle nuove regole del Patto di stabilità e crescita. Che entrambi i Paesi non sono stati in grado di rispettare. Nel report della Commissione europea, nell’ambito delle procedure previste dal semestre autunnale, il giudizio è lapidario: “complessivamente la Commissione è dell’opinione che il Piano strutturale di bilancio della Germania non è pienamente in linea con le raccomandazioni del Consiglio del 21 ottobre 2024”. Anche perché quel “Piano”, probabilmente a causa dei contrasti interni al Governo, non era stato presentato. Mancanza che non aveva impedito alla Commissione di esprimere il giudizio, basandosi sulle proprie valutazioni interne.
Analoga valutazione negativa aveva accomunato Austria e Paesi Bassi, entrambi esponenti del blocco dei “Paesi frugali”, rinviati a primavera per le eventuali sanzioni. Una sorta di legge del contrappasso. Erano tra coloro che si erano più si sono agitati nel nome del rigore finanziario, ed oggi sono le principali vittime del loro modo di operare, non essendo stati in grado di rispettare regole fortemente volute. Una contraddizione che dovrebbe far sorridere, se la situazione non fosse drammaticamente seria. Nel frattempo, infatti, l’Europa tutta ha perso un tempo di gioco, mentre ai suoi confini le minacce non solo di natura economica – finanziaria, ma militare sono aumentate di intensità. Si pensi al grande risiko del Medio Oriente, agli sviluppi della guerra in Ucraina. Al rischio che i russi, utilizzando il “modello Ucraina”, avanzino in Georgia, per poi conquistare anche altri territori.
Di fronte ad una simile prospettiva, imperativo delle singole forze politiche europee, come ai tempi della “guerra fredda”, doveva essere la ricerca del massimo di unità possibile. Approfittando, tra l’altro dell’intervenuto collasso della Terza Internazionale comunista. Si è verificato, invece, il contrario. Il che la dice lunga sulla qualità intrinseche della leadership, di coloro che in questi anni sono stati al vertice della UE. Da questo punto di vista il caso di Christian Lindner (nella foto), capo del Partito liberale democratico tedesco, nonché ministro delle finanze di quel Paese, la dice lunga. Nella lunga fase di gestazione che aveva accompagnato il varo delle nuove regole del Patto di stabilità, la Commissione aveva proposto uno schema più “liberal”. Basato su un confronto più diretto tra i singoli Stati e la stessa Commissione dal quale far scaturire quelle ricette di natura economica e finanziaria che meglio si sarebbero adattate alla variegata realtà dei Paesi europei. Fermo restando l’impegno a contenere i disavanzi e garantire la sostenibilità del debito.
L’accordo era a portata di mano, se Lindner non ci avesse messo lo zampino. Sua la teoria che l’eccesso di liberalismo non andava. Meglio la tirannia dell’algoritmo: vale a dire vincoli numerici in termini di riduzione del deficit e del debito uguali per tutti. Dopo un finto scontro con la delegazione francese, pronta ad accodarsi e forte dell’appoggio degli altri “paesi frugali”, furono, quindi, varate quelle regole, oggi in vigore, che solo 8 Paesi su 20 sono riusciti a rispettare. Che cosa aveva spinto Lindner? Il senso di disciplina che è tipico della cultura tedesca? La sfiducia nei confronti di coloro che, in passato, non avevano rispettato gli impegni? Le preoccupazione per un debito pubblico sempre più lontano da quella soglia – il 60 per cento del Pil – stabilita a Maastricht? Insomma etica della convinzione nella patria di Max Weber? Si fosse tratta di questo: chapeau! Ed invece manco per niente.
Più che etica della convinzione, la sua era solo convenienza. Roba di bottega. Il suo partito (solo il 4 per cento dei voti) era in bilico. Continuamente insidiato da ADF (Alternative für Deutschland). Doveva quindi dimostrare all’elettorato di essere il campione dell’intransigenza finanziaria contro coloro che volevano rubare ai tedeschi i loro sudati risparmi. Ed ecco allora il perché di tanto “stupido” rigore, in un momento così difficile per la vita europea. Comportamento che sarà mantenere anche nei confronti dei i propri alleati di Governo. Lo farà rifiutando il Piano proposto da Scholz per far fronte alla grave crisi nazionale. Addirittura contrapponendogli un proprio documento (“Svolta economica e giustizia generazionale”), in cui proponeva una ricetta iper-liberista: taglio delle tasse sulle società, retromarcia sulle politiche climatiche, riduzione dei benefit legati al reddito di cittadinanza ed eliminazione del sussidio per i Laender dell’Est. Una vera e propria provocazione agli occhi di Scholz che non esiterà a bollarlo come una sorta di traditore: “a lui – dirà – importa solo della sua clientela. Ha a cuore esclusivamente la sopravvivenza a breve termine del suo partito”. Inevitabile la risposta dello stesso Lindner: “Il Cancelliere federale mi aveva chiesto di sospendere il freno al debito nella Legge fondamentale. Non potevo accettare”. Furori e carezze dell’imminente campagna elettorale.
Come andrà a finire, lo vedremo. Certo è che la polemica tra i due esponenti di partito è tutt’altro che edificante. Da un lato chi difende a spada tratta la propria ragione sociale. Dall’altro il Cancelliere che, pur di avere il sostegno dei liberali – liberisti, aveva loro consegnato il più importante dicastero della Repubblica, mettendo nelle loro mani un arma destinata a colpire il cuore stesso dell’Europa. Sullo sfondo, infine, non solo in Germania, ma nella stessa Francia, una balcanizzazione della politica. Lo scontro di tutti contro tutti, come si è visto nel dibattito sulla fiducia al Bundestag o nei sontuosi saloni dell’Eliseo, dove Emmanuel Macron è alla ricerca di una difficile intesa. Contraddizioni laceranti: i due principali partiti – di destra e di sinistra – non hanno i numeri sufficienti per governare. Devono chiedere il supporto dei reciproci “cespugli. Che a loro volta non ci stanno a fare da servitori sciocchi, ma chiedono il potere necessario al “primum vivere”. Anche a costo mettere in crisi l’intero sistema.
Per chi guarda all’Europa dall’altra sponda dell’Atlantico, lo sconcerto è evidente. Mai come oggi la vecchia battuta, attribuita ad Henry Kissinger “A chi telefonare?”, appare drammaticamente attuale. Per fortuna, verrebbe da dire, ci sono Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Entrambi in grado di reggere il timone, nella speranza che si ricostituisca, quanto prima, un nucleo più ampio in grado di esercitare una leadership, che non potrà che essere plurale. Certo sarebbe meglio se la sinistra, in Italia, fosse consapevole della delicatezza della situazione e dei rischi che l’Europa sta correndo. Se fosse in grado di elaborare una propria piattaforma destinata a fornire un apporto costruttivo. Dovrebbe, in altre parole, percorre una strada ben diversa da quella di Christian Lindner, riandando semmai con la mente ai tempi del “compromesso storico”. Quando la guerra non c’era e l’URRS era ancora lì pronta ad impedire qualsiasi cambiamento. In definitiva, un atto di coraggio. Che purtroppo non si vede all’orizzonte.