(Sesta e ultima parte di un approfondimento di Teo Dalavecuras. Le cinque puntate precedenti si possono leggere qui)
Il fatto è che ci sono solo due modi, sufficientemente sperimentati, per organizzare politicamente un territorio occupato da popoli che hanno in comune importanti elementi culturali (la tradizione culturale che origina dalla Grecia classica, il diritto romano, l’evangelizzazione cristiana) ma solo alcuni interessi comuni, mentre per il resto sono divisi da storia, tradizione politica, lingua, costumi e, last but not least, interessi divergenti quando non contrastanti. Uno è democratico e si chiama stato federale, per definizione fondato sulla sovranità degli stati federati, parzialmente e simultaneamente (nelle materie ingestibili separatamente come la difesa comune, la politica estera e la moneta) ceduta ad un governo federale fortemente controllato da parlamenti, anzi dove il bicameralismo è la regola. L’altro è non democratico, imperiale e accentrato. Paradossalmente gli Stati Uniti, che impero lo sono quanto meno dai tempi del New Deal di Franklin Delano Roosvelt, restano affezionati al loro regime federale e li si può capire: affidarsi consapevolmente a un regime imperiale significa rinunciare alla democrazia, pur con le disfunzioni che manifesta. L’Europa, che non è un impero, ma un declinante protettorato degli Stati Uniti, si è affidata, senza neppure deciderlo, a un regime imperiale perché si è in sostanza affidata al delirio centralista dei nipotini di Jean Monnet (oppure, come con ben altro stile scrive Bernabé, alla tradizione dirigista della pubblica amministrazione francese).
Per essere più precisi, l’Europa ha sposato in toto la strategia di Jean Monnet, di creare le condizioni perché l’Europa attraverso la manipolazione dell’economia diventasse talmente omogenea e interconnessa da potersi unire politicamente senza quasi accorgersene, un disegno che Monnet nelle proprie memorie formula candidamente, giustificandolo con la sua diffidenza per la politica, fonte di problemi e non di soluzioni. Un disegno che solo un burocrate-tecnocrate a 24 carati può concepire e che promette di generare parecchie contraddizioni in qualsiasi organismo anche circoscritto ma ancora vivo. In Europa, l’istinto autoespansivo della classe burocratica insieme alle conseguenze della oggettiva subordinazione geopolitica dell’Europa agli Stati Uniti, ha prodotto invece un subitaneo ampliamento dell’organismo con l’incorporazione di molti Paesi del disciolto blocco orientale. La prospettiva dell’unione politica, già difficile nell’Europa dei Sei si è allontanata definitivamente.
A quel punto della retorica unitaria si sono appropriati i burocrati di Bruxelles che, come tali, vivono nella certezza “kelseniana” (senza offesa postuma per l’incolpevole Hans Kelsen) che lo Stato, entità politica, si possa ridurre a un castello di norme di cui il vertice burocratico si presta volentieri a fare da Grundnorm, e che il consenso con adeguati stanziamenti e con la tecnologia si costruisce. In questa prospettiva, anziché contenere le competenze per controbilanciare gli inevitabili problemi portati dall’allargamento, a Bruxelles si sono dati ad ampliare le aree d’intervento portando probabilmente al punto di non ritorno il processo di “svuotamento” degli Stati membri. Di fatto, le élites degli Stati “sovrani” si sono allineate a questo assetto di potere che ne sta disgregando i sistemi politici e che contribuisce non poco al declino dell’Europa. Per il momento non si vede nessuna luce, anzi la riconferma di von der Leyen dimostra che, al contrario di quanto Bernabè (se non ne ho frainteso il discorso) ritiene urgente e indispensabile, il messaggio è quello della vecchia canzone, “come prima, più di prima”.
L‘ipotesi coltivata oggi dai potentati burocratici di Bruxelles e dintorni, per quel che si può intuire dalle nuove bibbie redatte sotto la direzione di Mario Draghi sembra un’edizione aggiornata della antica formula di Lenin (socialismo = potere dei soviet + elettrificazione) dove basta sostituire al potere dei soviet quello della Commissione e all’elettrificazione l’intelligenza artificiale. Nel senso che con una massa di investimenti coatti si immagina di recuperare in parte la distanza che divide l’Europa dalle economie più dinamiche. Anche se la certezza è la rinuncia, da parte dei potentati burocratici, alla finzione della libertà di mercato, quella di un futuro totalitario sembra ancora una prospettiva decisamente inverosimile. Bisogna però fare attenzione al fatto che oggi le opinioni pubbliche sono sostanzialmente addormentate, ma la fame suona la sveglia assai efficacemente e il tenore di vita della classe media seguita a scendere. E da un certo punto in avanti le cose possono conoscere evoluzioni repentine, soprattutto se l’idea è di schiacciare l’acceleratore sugli investimenti in un insensato inseguimento di performance economiche aggregate seguitando a ignorare – come osserva anche Bernabè – bisogni, aspettative e sensibilità di questi famosi 500 milioni di consumatori che forse non sono solo consumatori. E questo in un’Europa in cui anche la classe manageriale, l’alta burocrazia delle grandi e grandissime imprese, mostra preoccupanti segni di inadeguatezza (sei disposto a credere, direttore, che la Commissione possa essersi inventata il green deal, il net zero e le altre baggianate senza un input e il sostegno dei manager dell’automotive europeo, e non solo quelli?).
Per il momento la prospettiva più verosimile è quella di un’Europa sempre più frammentata e terra di nessuno, come è destino dei territori dai quali è stata bandita la politica, che tornerà, inevitabilmente, ma in forme più autoritarie di quelle abbastanza democratiche cui ci eravamo abituati, come anche gli sviluppi a Palazzo Berlaymont lasciano presagire. In un certo senso, caro direttore, si potrebbe avverare la profezia del tuo “compatriota” Roberto Vacca, il Medio Evo prossimo venturo. Quando più sopra evocavo una “seria iniziativa politica degli Stati membri”, di contrasto della deriva autocratica della Commissione von der Leyen II, ovviamente scherzavo. Sappiamo tutti che una simile iniziativa non è nemmeno ipotizzabile nelle condizioni attuali. Mi limito a osservare solo che la proposta di Feltri per una Giornata in memoria della Repubblica parlamentare è riduttiva. Va istituita una Giornata in memoria della Democrazia, nella serena consapevolezza che per la quasi totalità della propria storia anche l’Occidente ha convissuto, felice o infelice, senza le salvaguardie di regimi democratici, col nudo esercizio del potere. Ma, soprattutto, nella certezza che i “valori democratici” saranno custoditi in eterno a Palazzo Berlaymont, in apposito tabernacolo. Perché nelle alterne vicende della nostra specie una cosa non mancherà mai, e il funzionamento delle istituzioni dell’UE ne offre numerose rassicuranti conferme: il kitsch.
(6. fine: le puntate precedenti si possono leggere qui)