Colpisce, nelle cronache e nei commenti sulla tragica morte della bambina che la mamma ha fatto volare con sé dal sesto piano di un palazzo a Ravenna, la mancanza di una parola: figlicidio. La donna si è salvata, la bimba è morta e l’hanno sentita implorare: “No, mamma!”. Difficile immaginare una scena più straziante. A dir la verità colpiscono anche la perifericità della notizia nelle scalette di notiziari e giornali, indice di un’insufficiente sensibilità verso un problema che ha invece dimensioni tristissimamente preoccupanti, e la conseguente mancanza di collegamenti con i non pochi casi precedenti. Il mancato utilizzo del lemma dipende proprio dalla scarsa storicizzazione.
La distrazione, ovviamente, spicca ancor più perché ci troviamo a vivere nell’epoca del femminicidio. Usciamo dal 2023 nel quale questo termine è entrato nel lessico comune, è stato celebrato come parola dell’anno da linguisti e dizionari. In particolare dopo il caso di Giulia Cecchettin, il suo utilizzo ripetuto ha prodotto una maggiore sensibilizzazione verso la violenza contro le donne, che si è tradotta anche in un aumento significativo dei casi denunciati e degli interventi preventivi e repressivi del fenomeno (lo attestano i dati recenti del Dipartimento anti crimine). Non c’è che da esserne soddisfatti, pur senza nasconderci i rischi di ideologizzazione di tale sensibilità e di un eccesso diagnostico che potrebbe portare a colpire qualche presunto colpevole ledendo i fondamentali del nostro diritto (cominciano a emergere casi di denunce false o fortemente esagerate).
La sacrosanta indignazione per i femminicidi, però, è monca proprio perché non è inserita in una dinamica più ampia nella quale andrebbe contestualizzata e inquadrata, la violenza in famiglia. Sappiamo che i delitti contro le donne vengono compiuti per la stragrande maggioranza da mariti, fidanzati, compagni o ex-tali, quindi in un ambito di relazione affettive, quello nel quale si verificano, in misura minore ma che non deve far sottovalutare il dramma, anche i delitti contro i figli. C’è voluto persino tempo perché si prestasse la dovuta attenzione al problema dei bambini e minori che rimangono orfani di madre a seguito di un femminicidio. Troppo spesso, poi, i più piccoli sono le vittime dirette della violenza degli adulti, padre o madre, maschio o femmina che siano.
Questa violenza domestica non è un fenomeno recente e può avere mille cause delle quali si potrebbe discutere a lungo, tra le quali la strutturale crisi d’identità della famiglia, la sua ormai palese fragilità, l’insufficienza del nucleo sociale di base a contenere pulsioni, aspirazioni, insoddisfazioni, frustrazioni, sofferenze individuali, in modo magari un po’ coattivo come avveniva un tempo. Lo diciamo senza rimpianto né nostalgia, come semplice constatazione.
Qualche giorno fa uno degli editorialisti che scrivono meglio sui quotidiani nazionali, talvolta utilizzando quest’abilità retorica per uno sfoggio di buonismo un po’ melenso e fazioso, ha opportunamente evidenziato il caso penoso dell’anziana vedova senza figli plagiata dalla badante, che l’ha trasferita e in qualche modo imprigionata a casa della propria madre in Romania (per otto anni!) mentre lei si godeva casa e soldi della povera signora. Un episodio che probabilmente, complice l’abolizione del reato di plagio, si verifica con maggiore frequenza di quanto appaia e che conferma, se ce ne fosse bisogno, come la solitudine e l’infelicità invincibile che deriva dalla mancanza di affetto – meglio, dalla mancata percezione di affetto mediante segni concreti di solidarietà e vicinanza – sia uno dei peggiori mali della nostra società e del nostro tempo. Come dei precedenti e di quelli futuri, beninteso.
La Costituzione americana, com’è noto, include il diritto alla ricerca della felicità nella loro Carta d’indipendenza, del tema si dibatte molto e un paese orientale ha sostituito il Prodotto interno lordo con la Felicità lorda, inserendo nel computo alcuni valori immateriali. È una strada che si ipotizza di percorrere anche nelle società occidentali avanzate dove cerchiamo di misurare ogni cosa con dati numerici, finanziari, economici e monetari. La povertà del nostro cuore è più dolorosa di quella del portafoglio e dello stipendio (con cui naturalmente può convergere) e talvolta si risolve in tragedia, quando degrada in patologia psichica, in alterazione della mente. In tal caso, a farne le spese sono prima di tutto i bambini.