Anche i più critici e preoccupati della destra italiana guidata da Giorgia Meloni – alla quale non perdonano la fiamma missina, peraltro lasciata nel simbolo anche dell’Alleanza Nazionale da Gianfranco Fini uscendo a Fiuggi dalla “casa del padre”, che politicamente era stato per lui Giorgio Almirante – debbono riconoscere la grande differenza che c’è rispetto alla destra tedesca. Dichiaratamente conservatrice, e quindi moderata, l’una e dichiaratamente, orgogliosamente estremistica l’altra, sino all’esaltazione del nazismo. Entrambe di una ormai simile consistenza elettorale, avendo la destra tedesca appena raggiunto nel Brandeburgo il quasi 30 per cento dei voti che i fratelli d’Italia raccolgono nei sondaggi a livello nazionale.
Ci sarebbe da chiedersi – ma pochi lo fanno in Italia, nessuno a sinistra forse per non apparire abbastanza antimeloniano, o antifascista nell’accezione più severa da quelle parti – perché la destra italiana sia riuscita a crescere moderandosi e quella tedesca stia crescendo, da un turno elettorale all’altro, di ogni livello, estremizzandosi sempre di più, persino sfacciatamente.
In genere, essendo al governo col cancelliere Olaf Sholz e rischiando quindi di più, i socialisti appaiono a molti i responsabili in Germania del bubbone nero. Ma non è giusto prendersela solo o soprattutto con loro, che non avrebbero saputo cogliere gli umori dell’elettorato e fronteggiarne costruttivamente la protesta – dalla richiesta di sicurezza alla paura di perdere il benessere – con una politica adeguata.
Prima ancora dei socialisti andrebbero indicati all’origine del fenomeno dell’Afd i democristiani tedeschi, per quanto la loro leader Angela Dorothea Merkel sia passata già in vita alla storia, a 70 anni appena compiuti, come la più grande statista della Germania democratica dopo Konrad Adenauer.
È stata la Merkel, prima ancora – ripeto – del suo successore Scholz alla Cancelleria di Berlino, a non accorgersi di quanto le stesse accadendo intorno politicamente nel suo Paese. Lei ha compiuto verso la destra tedesca quell’errore di sottovalutazione, e di scarsa sagacia politica, evitato in Italia ai suoi tempi da una Dc pur spesso guardata con una certa supponenza dall’omologa Cdu germanica.
I democristiani di Alcide De Gasperi, di Amintore Fanfani, di Aldo Moro, di Giulio Andreotti seppero contenere elettoralmente i missini anche nei momenti di maggiore spostamento a sinistra dello scudo crociato.
La buonanima di Andreotti scherzava sui voti “in libera uscita” ogni tanto dal suo partito alla destra almirantiana, scommettendo sul loro “ritorno a casa”, prima o dopo. E vinceva generalmente la scommessa, non perdendo credibilità a destra neppure quando si assunse volentieri il compito di guidare ben due governi, per giunta monocolori democristiani, fra il 1976 e il 1979, sostenuti in modo determinante dal Pci di Enrico Berlinguer: prima con l’astensione e poi con una fiducia concordata con tanto di programma. E spingendosi una volta con i comunisti, nella crisi di governo del 1978, oltre Moro. Che pochi giorni prima di essere rapito dai brigatisi rossi gli aveva impedito di imbarcare nel secondo dei due governi di cosiddetta “solidarietà nazionale” un paio di indipendenti di sinistra eletti nelle liste comuniste.
Finita la Dc, anch’essa sotto la ghigliottina giudiziaria di Tangentopoli, l’opera di prevenzione, contenimento e quant’altro della destra proseguì col vero partito riuscito a ereditarne maggiormente i voti. Che fu non tanto il Partito Popolare riaperto da Mino Martinazzoli alla vigilia delle elezioni anticipate del 1994, e neppure oggi il Partito Democratico, dove sono confluite soprattutto le nomenclature residue della Dc e del Pci, ma la Forza Italia improvvisata più di trent’anni fa da Silvio Berlusconi. Che non a caso prima di entrare, anzi “scendere” in politica, come lui stesso mi confidò una volta, nelle elezioni per la Camera votava per il nostro comune amico Bettino Craxi e per il Senato la Dc, appunto.
Con la buonanima di Berlusconi la destra italiana entrò nel 1994 insieme nel governo e nel cosiddetto arco costituzionale dalla quale era rimasta anche volontariamente estranea sino ad allora, pur avendo concorso ogni tanto all’elezione del presidente della Repubblica: da Giovanni Gronchi a Giovanni Leone. E avrebbe forse concorso, su invito esplicito dell’allora presidente del Consiglio Craxi, all’elezione di Arnaldo Forlani nel 1985 al Quirinale se lo stesso Forlani, suo vice presidente del Consiglio e presidente della Dc, non avesse rinunciato a correre per lasciare eleggere Francesco Cossiga, preferitogli dalla segreteria democristiana retta da Ciriaco De Mita.