Le dimissioni di Liz Truss vengono da lontano. Molto lontano. Londra, 28 novembre 1990. I cittadini britannici guardano con sconcerto Margaret Thatcher uscire con le lacrime agli occhi da Downing Street e annunciare alla nazione le sue dimissioni. È la prima guerra civile dei Tories, che ha come vittima la Iron Lady. I deputati Tory e i ministri più senior del suo governo la invitato a farsi da parte: per loro ha perso la Middle England con la infausta poll tax, l’imposta di capitazione che gravava su tutti gli inglesi (e i gallesi) a dispetto del reddito. Profonde divisioni anche sul ruolo del paese in Europa determinano l’addio della Iron Lady. Da quel soleggiato ma gelido pomeriggio di autunno i Tory non avranno più pace. Eleggeranno un candidato centrista, John Major, al posto di Maggie, ma gli scandali, il duro confronto tra eurorealisti ed euroscettici sul Trattato di Maastricht e il Black Wednesday in cui la sterlina uscì dallo SME portò al clamoroso tonfo delle elezioni del 1997.
Anche gli anni all’opposizione non appianarono i contrasti. William Hague, delfino di Thatcher, combatté una battaglia contro l’introduzione dell’euro al ritmo di “keep the pound”, teniamo la sterline. La vinse ma non gli bastò per far tornare i Tories a Downing Street. Nel 2001 il partito scelse l’euroscettico Tory One Nation Iain Duncan Smith al posto dell’eurorealista Ken Clarke e dopo di lui un altro esponente della hard right, Michael Howard, senza però riuscire a intaccare il consenso di Tony Blair e del New Labour.
Con l’elezione di Cameron le cose sembrarono cambiare. I Tory si erano affidati al loro Blair: centrista, liberale sulle grandi tematiche sociali, giovane e carismatico. Solo che il paese era cambiato e dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 Cameron va al governo con i LibDems e deve proporre una ricetta di austerity: la destra post-thatcheriana lo incalza, lo European Research Group (ERG) – caucus potentissimo all’interno del partito – pretende prometta un referendum dentro o fuori su Bruxelles e quando il Premier porta in aula la legge sui matrimoni omosessuali oltre 100 deputati del suo partito si ribellano. L’aumento dei consensi dello Ukip di Nigel Farage a destra dei Tories manda nel panico i Conservatori. Si arriva alla resa dei conti interna – l’ennesima – il referendum sulla Brexit: Boris Johnson sceglie il Leave per scalzare il rivale da Downing Street. Il Regno Unito esce dall’Unione Europea.
Dopo avere scalzato May, Johnson si trova di fronte a un dilemma: come tenere insieme il partito e le nuove constituencies vinte dai Tories alle elezioni del 2017 e, soprattutto, del 2019? I Conservatori sfondano nel nord-est del paese, nei seggi dell’Inghilterra post-industriale detenuti da oltre 100 anni dal Labour. Chi vuole politiche di liberalizzazioni e tagli alle tasse resta deluso quando Johnson nel suo programma elettorale annuncia il “levelling up” – letteralmente “riequilibrio verso l’alto” – un enorme piano di investimenti pubblici nelle zone più disagiate del paese.
Ma la nuova coalizione di elettori Tory di Johnson è solo un cartello elettorale. In Parlamento il Primo Ministro non riesce a fare la sintesi tra i thatcheriani che lo hanno voluto leader, i centristi che lo ritengono inadatto a ricoprire incarichi pubblici, e i nuovi deputati eletti nell’ex Muraglia Rossa laburista di estrazione working class. Arriva il partygate e il partito invece che fare quadrato attorno al Premier lo cavalca. Johnson riceverà una multa di 50 sterline per la sua partecipazione ai drink a Downing Street e dopo alcuni scandali nel partito sarà costretto alle dimissioni.
Il leadership contest della scorsa estate ha fatto emergere le profonde divisioni in seno al partito: da una parte i thatcheriani dell’ERG, che scelgono Liz Truss come loro alfiere. Dall’altra i Tory moderati che puntano sull’ex Cancelliere di Johnson, il miliardario anglo-indiano Rishi Sunak, per una politica di bilancio all’impronta della responsabilità e della fattività. In uno strano gioco delle parti la ex Remainer Truss è il beniamino dei brexiteers, mentre il Leaver Sunak diventa il punto di riferimento degli anti-johnsoniani e dei centristi. Strana la politica, vero?
Il resto è storia recente. Truss assesta un colpo quasi mortale al thatcherismo e allo ERG. I centristi con Hunt e Shapps prendono le redini del partito, diviso su tutto. Si parla di un ritorno di Johnson, amato dalla base e dai finanziatori dei Tories, ma su cui pesa la spada di Damocle di un’indagine parlamentare del Privileges Committee della Camera dei Comuni per accertare se abbia o meno “tratto in inganno” il Parlamento sul partygate. Sunak vede la porta di Downing Street sempre più vicina. I mercati finanziari vorrebbero lui, ma tra i Tories c’è chi non si dimentica della pugnalata a Johnson e di un video in cui l’ex Cancelliere affermava di volere redistribuire i soldi nelle tradizionali roccaforti del partito nel sud e nel sud-est invece che al nord. Forse il terzo incomodo prevarrà. Ma chi potrà fermare l’ennesima guerra civile dei Tories che rischia di distruggere il partito per sempre?