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Editoria

Care firme giornalistiche, perché non rivelate i compensi ricevuti da banche, assicurazioni e non solo?

"Come lettore, penso di aver diritto di sapere che i miei giornalisti preferiti (e non solo loro) ricevono o non ricevono lauti compensi da banche, assicurazioni e altri tipi di aziende". L'intervento del professor Marco Mayer

 

Caro direttore,

Start Magazine, con una lettera di Claudio Trezzano, ha acceso i riflettori su un tema di cui sinora non ha mai parlato nessuno.

Numerosi giornalisti, più o meno famosi (inclusi direttori di testate), percepiscono compensi molto alti per la loro partecipazione a tavole rotonde, presentazione di libri o eventi aziendali che durano poche ore.

Arrotondare lo stipendio è un’aspirazione legittima per tutti i lavoratori, ma la domanda che intendo rivolgere ai lettori di Startmag è la seguente: chi opera nel mondo dell’informazione ha o non ha un dovere di trasparenza in più?

Sinora su queste attività extralavorative ha dominato una coltre di silenzio che non fa onore alla categoria.

Come lettore, penso di aver diritto di sapere che i miei giornalisti preferiti (e non solo loro) ricevono o non ricevono lauti compensi da banche, assicurazioni e altri tipi di aziende.

L’editoria è sempre più in bilico perché diminuiscono continuamente e drasticamente le vendite. È un comparto industriale in perdita che si regge su sussidi statali e su imprese multisettoriali disposte a subire ingenti perdite dai giornali di cui sono proprietarie poiché interessate – per le più svariate ragioni – ad influenzare l’opinione pubblica.

Il Washington Post è di Amazon e il South China Morning Post di Hong Kong è di Alibaba, solo per citare i due casi più eclatanti a livello internazionale.

Questi condizionamenti strutturali, insieme all’irrompere dei social media, allontanano sempre di più la possibilità per i cittadini di disporre e leggere giornali veramente indipendenti, che sono una componente essenziale di ogni democrazia.

In una situazione di per sé già così piena di condizionamenti – diretti e indiretti -, i giornalisti non dovrebbero assumere comportamenti deontologicamente discutibili.

Sarebbe decisamente preferibile che gli operatori dell’informazione giocassero a carte scoperte, dichiarando pubblicamente i compensi che ricevono per le loro prestazioni ai privati.

Non servono nuove leggi né nuovi codici etici: basterebbe dare l’esempio.

Spero vivamente, caro direttore, che qualcuno dei tuo colleghi faccia “outing” raccogliendo questo invito alla trasparenza. Sono certo che, una volta rotto il ghiaccio, numerosi altri colleghi seguiranno, decidendo di portare una ventata di trasparenza di cui anche nella “casta” dei giornalisti e nel mondo dell’informazione c’è un grande bisogno.

Peraltro, nei talk show televisivi accade qualcosa di analogo. A partecipare sono quasi sempre giornalisti e – al di là dei compensi – quasi sempre gli stessi, con risultati molto modesti.

Sarebbe meglio che i giornalisti, invece di parlarsi addosso o interloquire tra di loro, facessero il loro mestiere intervistando senza peli sulla lingua i veri protagonisti dell’attualità.

Gli esempi virtuosi non mancano: basti pensare a Hard Talk della BBC. Anche in Italia avevamo grandi professionisti come Enzo Biagi e trasmissioni di qualità come Mixer, ma – salvo rare eccezioni – oggi il panorama è davvero desolante.

Marco Mayer

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