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von der leyen

La Commissione Ue sparge soldi ai grandi giornali. Chi se ne frega?

Ecco come e perché i grandi giornali perdono sempre più credibilità. Il corsivo di Teo Dalavecuras

Il corsivo di due economisti come Tito Boeri e Roberto Perotti, che si poteva leggere l’altro giorno su la Repubblica, è degno di nota sin dal titolo (“Le parole in libertà del prof Canfora”), considerato che il celebre filologo e storico appartiene alla élite degli “intoccabili” del nostro mondo intellettual-pubblicistico, e interviene regolarmente nel dibattito pubblico con opinioni orientate a sinistra e soprattutto “antifasciste”, su una linea più coerente con quella del quotidiano romano, benché i suoi articoli siano ospitati di norma sulle pagine del Corriere della Sera.

I due autori fanno notare che Canfora “si è lanciato in una serie di affermazioni sconcertanti e offensive nei confronti di Giorgia Meloni, al confine tra l’esercizio della libertà di opinione e l’insulto vero e proprio”. L’articolo, argomentato e severo – senza mai degenerare, però, nella prosa manipolatoria e cavillosa (sostanzialmente in malafede) oggi così in voga – descrive le conseguenze paradossali e inaccettabili delle affermazioni di Canfora. E lo fa per quanto mi riguarda in modo convincente.

Ma non è questo l’aspetto dell’articolo che mi ha fatto riflettere: restano ovvietà nonostante che – come notano Boeri e Perotti – in tanti siano saliti sul carro della Melonifobia trascinato dalle pesanti parole di Canfora, rincarando magari la dose. L’osservazione che mi ha colpito è un’altra: anche se l’effetto Bandwagon delle parole di Canfora si può spiegare con l’intenzione (già, le buone intenzioni) di contrastare chi propone “una narrazione del Ventennio in chiave nostalgica”, in questi casi l’arma migliore – ribadiscono i due economisti – “è la credibilità, un’arma di cui si priva chi oggi difende le sconcertanti affermazioni di Canfora”.

Dal punto di vista della credibilità il fenomeno sembra più vasto del caso di questa polemica che, come quasi sempre le polemiche, è cosa effimera; riguarda un metodo che si è imposto ormai da anni nella confezione dei contenuti dei mass media (non mi riferisco ai cosiddetti social che non frequento e dei quali quindi nulla so). Le tecniche applicate di preferenza sono quelle della deliberata ambiguità dei titoli, della composizione delle prime pagine che hanno sempre meno a che fare con una sensata priorità delle notizie e sempre più con l’impegno a orientare, appunto, l’opinione pubblica, e fanno leva su un nutrito apparato di commenti (vignette comprese) che hanno quasi sempre i medesimi bersagli polemici (in forme diverse lo stesso metodo viene applicato con pari scrupolo dai mezzi radiotelevisivi). In breve, si può constatare un totale disinteresse di quelli che un tempo si chiamavano organi indipendenti di informazione a guadagnare, o quanto meno a non perdere, credibilità.

Giorni fa Ivo Caizzi – per molti anni corrispondente del Corriere da Bruxelles – racconta sul Fatto di come la Commissione europea distribuisca soldi (i nostri, tanto per non dimenticare) ai media europei (comprese ovviamente testate come Corriere della sera, la Repubblica e ilSole 24Ore) con l’effetto di ottenere “buona” stampa e soprattutto di bandire quella “cattiva”. L’articolo di Caizzi passa inosservato, salvo che un quotidiano di destra come la Verità gli dedica un ampio pezzo. Neanche a farlo apposta, un paio di giorni dopo Politico pubblica un lungo articolo sull’apertura di un’inchiesta da parte dell’EPPO (acronimo in lingua inglese per Pubblico Ministero Europeo) nei confronti della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, candidata a restare presidente dopo le elezioni del 9 giugno. L’argomento sono le trattative a base di sms tra la presidente e il numero uno della Pfizer all’epoca del covid, Albert Burla, per la fornitura del vaccino, tradottesi in un contratto “vietato ai minori” cioè infarcito di omissis nella versione elargita al pubblico dei contribuenti europei.

Siccome il giornalismo non è una scienza esatta, si può sempre sostenere che questa non fosse una notizia da prima pagina e magari (per buon peso) accusare chi dissente di attentare alla libertà delle “scelte redazionali”. Né il Corriere Repubblica né il Sole24Ore hanno “strillato” in prima pagina l’iniziativa del Pm europeo a carico di von der Leyen, il primo perché non l’ha evidentemente ritenuta così importante, pur dedicandole un ampio articolo nelle pagine interne; le altre due per un’ottima ragione: né RepubblicailSole24Ore hanno trovato lo spazio di una riga nelle loro pagine per quella notizia.

Conclusione: alla non sensazionale notizia del “grazie” di Ilaria Salis a Mattarella i tre quotidiani hanno dedicato altrettanti articoli, tutti segnalati da uno strillo in prima pagina. Quell’altra notizia, sulla von der Leyen, che potrebbe forse bruciare la sua candidatura a capo della Commissione per il prossimo quinquennio, e comunque sia scompaginare i giochi già in corso per la formazione della prossima Commissione Eu, è stata sottovalutata o addirittura è sfuggita. Capita. Chissà se con questa distrazione c’entrano le munificenze alla carta stampata raccontate da Caizzi. Quel che è certo è che la “credibilità” non è la prima, e forse nemmeno l’ultima, preoccupazione nel mondo di quella che ci si ostina a chiamare, sempre meno propriamente, informazione.

Ciò che precede è solo un esempio dell’assoluta indifferenza della carta stampata per la propria credibilità, ma ce ne sarebbero tanti altri magari meno coloriti ma ancora più significativi. Leggevo giorni fa un editoriale compostamente scandalizzato dedicato alle prossime elezioni del parlamento europeo sul Corriere della Sera: si deplorava la superficialità testimoniata dalla designazione di candidati celebri ma non necessariamente competenti. Poiché il Corriere è ancora un quotidiano e non un volume dell’Enciclopedia Treccani, questa denuncia di una pretesa malpractice, peraltro vecchia come lo stesso “parlamento europeo”, suonava un po’ strana, ma questo è il meno. Nell’editoriale in questione, come nella stragrande maggioranza di quelli che sono stati e, ahimè seguiteranno a essere pubblicati nelle prossime otto settimane in tema di elezioni “europee”, non si è scritta né si scriverà nemmeno una parola sul fatto che il parlamento di Strasburgo è oggettivamente la caricatura di un parlamento vero: si tratta della somma di ventisette delegazioni elette con regole diverse da ventisette diversi elettorati e – soprattutto – a nessun membro di questo parlamento è consentito di presentare disegni di legge ma solo di votare quelli proposti dalla Commissione europea, alla fine di un lungo e contorto iter negoziale con soggetti e in luoghi esterni al sedicente parlamento europeo. Quindi né vero parlamento, né veramente europeo. Dettagli senza importanza? Può darsi, sono valutazioni soggettive. Di sicuro, ignorare questi “dettagli” che tradiscono la natura profondamente antipolitica dell’europeismo ufficiale sostiene la narrazione di Bruxelles. Ma è solo una coincidenza.

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