Leggere le elezioni dell’Emilia Romagna come se si fosse trattato di un semplice derby tra destra e sinistra può essere un grave errore. Naturalmente quel confronto c’e stato ed ha prodotto, nel breve periodo, risultati evidenti. Il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, ha potuto tirare un sospiro di sollievo. Certamente non si è indebolito, anche se è difficile valutare se si sia effettivamente rafforzato visti i mutamenti intervenuti nei rapporti di forza interni alla maggioranza. Più netto il successo del duo Zingaretti-Franceschini che, almeno in questa fase, sono riusciti a romanizzare i barbari. Neutralizzando le loro spinte più eversive. La speranza è quella di non dover più sentire tanti proclami all’insegna del giustizialismo e del rancore sociale.
Il problema principale per i Dem è capire se si sia trattato di un semplice caso o se l’esperimento possa essere esteso alle altre realtà regionali. Zingaretti non solo lo ritiene possibile, ma in qualche modo scontato. Dovrebbe essere garantito da una legge elettorale di tipo proporzionale, in grado di offrire al variegato mondo della sinistra una specifica rappresentanza (grillini, cattolici di sinistra, riformisti renziani, post-comunisti, sinistra-sinistra, sardine ecc.) e al tempo stesso un argine nei confronti di una destra “sporca e cattiva”. Più che un ritorno alla Prima Repubblica, dove i grandi partiti rappresentavano un elemento essenziale dell’organizzazione politica, nel loro contribuire – come recita la Costituzione – alla vita democratica del Paese.
Già nelle prossime settimane si vedrà se questo disegno potrà reggere. Dal confronto elettorale, i 5 stelle escono con le ossa rotte. Non sono più la principale forza politica del Paese. Ma un elemento residuale rispetto ai principali protagonisti. Cocente la sconfitta di Luigi Di Maio e del suo almanaccare intorno a una forza post ideologica, in grado di aprire una fase nuova negli equilibri del Paese. Sconfitta che rende evidente il conflitto tra Davide Casaleggio, sodale del primo, e Beppe Grillo, ormai tornato nelle braccia rassicuranti del Pd. Vi saranno conseguenze sulla tenuta del governo? Staremo a vedere.
Sta di fatto che la leadership del Pd è ancora contendibile. Ma non lo sarà per molto. Il tempo lavora a favore dell’attuale gruppo dirigente. Che potrà muoversi per rendere più solide quelle alleanze che già si sono viste in controluce nella partita emiliana. Tanto più se si pensa alle prossime scadenze. La riduzione del numero dei parlamentari avrà come effetto una più forte centralizzazione delle linee di comando, consolidando le relative leadership. Chi rischia di più è proprio Matteo Renzi, che vede restringersi notevolmente i suoi spazi di manovra. Tanto più se si pensa a Giuseppe Conte, evidentemente ben più disposto, venuta meno la spina nel fianco dei 5 stelle, ad assecondare la linea di governo, che sarà sempre più decisa da Via del Nazzareno.
E nel centro-destra? Il tempo per elaborare il lutto dovrà essere relativamente breve. La sconfitta, considerato il passato storico di quella regione, è stata più che onorevole. Non si cancellano 70 anni di egemonia culturale in un colpo solo. C’è poi una questione meno appariscente, ma forse ancor più significativa. In Emilia Romagna la crisi economica e sociale, in cui versa il resto dell’Italia, non si avverte. O si avverte meno. Reddito medio elevato, tasso di disoccupazione particolarmente basso, qualità dei servizi pubblici (grazie ad una spesa storica molto più elevata rispetto al resto delle altre realtà territoriali e quasi interamente finanziata dallo Stato centrale) ben oltre gli standard nazionali. Alla base di tutto, senza dubbio le qualità intrinseche di una popolazione laboriosa, ma non solo.
L’Emilia Romagna, insieme (ma forse più) della Lombardia, del Veneto e del Trentino, è favorita dal modello di sviluppo dell’economia italiana. Così come è andato sempre più configurandosi dal 2012. Gran parte della sua produzione si rivolge ai mercati esteri, con un forte attivo della bilancia commerciale. Che comporta una crescente disponibilità di risparmio, investito soprattutto all’estero. Specie in investimenti di portafoglio, che hanno una loro base di massa. Fondi comuni d’investimento, titoli del debito pubblico americano, obbligazioni di banche e società con rating elevato. Garanzie solide per un futuro che, nelle intenzioni della maggior parte degli elettori, non solo non deve cambiare. Ma consente, ad esempio, agli stessi di vedere nelle preoccupazioni della Lega solo pulsioni xenofobe o razziste. Per questo basta vedere i dati disaggregati dell’Istituto Cattaneo. Bonaccini vince soprattutto a Bologna e Modena, nelle grandi città dove il benessere è più diffuso, ma in periferia le cose sono andate diversamente.
Comunque sia, il centro destra non può far finta di nulla. Deve, al contrario, interrogarsi sui limiti della sua proposta politica. Non tanto perché ha perso. Ma perché non ha saputo conquistare proprio quei ceti che poco hanno a che vedere con le politiche pauperistiche dei 5 stelle o sostanzialmente anti-growth (al di là delle chiacchiere) del Pd. Qui c’è un ritardo che va rapidamente colmato. C’è l’ha ancor maggiore il centro-sinistra. Ma, in questo caso, quel limite pesa meno. Considerati i valori fondanti (solidarismo e egualitarismo) che connotano quel mondo. C’è quindi il rischio che i recenti risultati elettorali ne esaltino ancor più le relative valenze, spostando ulteriormente le leve della politica nazionale verso obiettivi di semplice redistribuzione del reddito, che non verso esigenze di crescita economica e di sviluppo complessivo. In ciò trovando il sostegno della stessa Commissione europea, disposta a concedere anche maggior deficit: tanto, alla fine, il debito resta a carico degli italiani. Mentre il minor impegno a favore della produzione nazionale non può che favorire quella dei Paesi concorrenti. Due piccioni con una sola fava.