Skip to content

delitto giulia cecchettin

Che cosa non si dice sull’omicidio di Giulia Cecchettin

Caso Cecchettin e non solo. Mancano analisi serie di tipo scientifico e psichiatrico per capire quanto l'assassino e lo stupratore siano da considerare quali malati di mente, una diagnosi scomoda poiché costringerebbe ad abbandonare l'illusione di risolvere il problema con gli interventi sociali tramite scuola e famiglia. Il corsivo di Battista Falconi

 

Dopo alcuni giorni dal delitto di Giulia Cecchettin e dalla cattura del suo assassino prosegue sui media la narrativa secondo cui il governo si starebbe impegnando sul femminicidio sull’onda della cronaca e accogliendo l’invito delle opposizioni a collaborare, quando è esattamente l’opposto. Basta vedere i dati e le date per riscontrarlo, ma lo evidenziano quasi solo i ministri e le ministre nelle interviste: così, nel grande e confusionario calderone multimediale, anche questo tema diventa un “ma cos’è la destra, cos’è la sinistra”.

Molti commenti progressisti, quelli più intellettuali o intellettualoidi, cercano poi di passare dalla lotta contro il femminicidio ai riconoscimenti per lgbtq+ e agli altri cambiamenti normativi su famiglia e genere. Un processo che va avanti da diversi decenni, vedi la scomparsa del pater familias e dell’attenuante per il cosiddetto delitto d’onore, e che nelle intenzioni dei proponenti deve proseguire fino a una sorta di livellamento generale, per il quale l’uguaglianza di desideri lo diventi anche di diritti e di opportunità. Un’utopia che riecheggia quella comunista però contaminata con il libertarismo radicale, un mix di cui Augusto del Noce aveva previsto la deflagrante potenzialità.

A livello di fiaccolate di solidarietà è riecheggiato il celebre, o famigerato, slogan “bruciare tutto”. Nelle intenzioni della parte per lo meno più giovanile e militante dei manifestanti si proverà a usare questo tema, la sacrosanta difesa della donna dalla violenza maschile, in senso più ampiamente contestatario, come un motore di ribellione sistematica. Secondo il modello già utilizzato con alterne fortune con argomenti quali ambiente (Cina e alcune lobby green ringraziano), migrazioni (rimaste così questione irrisolta, anche qui trafficanti di uomini e paesi europei continentali ringraziano) ed economia (ma forse Landini si è accorto del respiro corto di questa tattica). Accendere la piazza in Italia è oltretutto molto difficile e anche all’estero sono ormai molti i tentativi riusciti nei numeri delle persone scese in strada ma falliti come obiettivi, vedi la Spagna con l’amnistia ai separatisti e la Francia con la riforma delle pensioni.

L’iperattenzione per il femminicidio, probabilmente, ha anche smorzato le polemiche sul panpenalismo del governo, che si erano accese a più riprese da parte progressista-libertaria, in particolare dopo l’ultimo Consiglio dei ministri che ha annunciato e presentato una serie di nuovi reati e pene (oggi tiene ancora il tema in evidenza la sola Unità). È ovvio che se si chiede di calcare la mano contro violenza carnale diventa difficile prendersela con le misure contro altri delitti. Così come, altra evidente contraddizione buonista, non si illumina l’incidenza dei migranti di prima o successiva generazione nella tremenda casistica dei delitti misogini per non rischiare di intaccare il mito della multiculturalità.

Tra i commenti “di destra” sono pochi, per esempio il cattolico Massimo Gandolfini, a dire che la causa dei femminicidi è la scomparsa del senso (e della paura) di Dio, facendo quindi dedurre che quindi proprio le culture tradizionali e autoritarie aiutano il contenimento delle tensioni interiori e relazionali. Una tesi non priva di un fondo di verità che però si perde in un delirio di interpretazioni causalistiche tipo “è la differenza di carriera”: Giulia all’università andava meglio dell’ex fidanzato, il quale quindi l’avrebbe uccisa anche per invidia, gelosia e rivalità accademica. Ma anche uno psicanalista importante come Luigi Zoja avverte sul Foglio che la polemica contro il patriarcato non ha senso, che anzi è stato il suo smantellamento ad aggravare il disorientamento maschile, mentre altri psicologi puntano il dito sull’“individualismo social”.

Mancano però analisi serie di tipo scientifico e psichiatrico tese a capire quanto l’assassino e lo stupratore siano da considerare quali malati di mente, una diagnosi scomoda poiché costringerebbe ad abbandonare l’illusione di risolvere il problema con gli interventi sociali tramite scuola e famiglia. Oppure a riscontrare, anche qui la cronaca parla chiaro, come il femminicidio vada inquadrato negli omicidi e nella violenza di famiglia, poiché gli atti dei maschi contro le femmine si inseriscono in uno scenario ampio, che include altre disabilità e fragilità. Anche ieri c’è stato un caso di questa tipologia a Fano, oscurato però da quello di Giulia. Di nuovo, sarebbe scomodo lasciare interpretazioni prêt-à-porter per la fatica di un’analisi seria della crisi della famiglia tradizionale, ormai coacervo di frustrazioni solitarie non più contenute da uno schema sociale rigidamente acquisito.

Torna su