Il Partito Popolare Europeo non ha alcuna intenzione di immolarsi sugli altari del green new deal e dell’immigrazione – a vantaggio dei populismi di destra montanti – alla maniera in cui nel decennio precedente tanti partiti socialisti si sono sacrificati su quelli del fiscal compact e delle riforme strutturali – “pasokizzandosi” a vantaggio dei populismi di sinistra.
Sarebbe bastato capire questo e molto probabilmente ci si sarebbero risparmiati quattro desolanti mesi di psicodramma politico intorno alla composizione della nuova Commissione europea. Se non lo si è capito è perché molti dei protagonisti, governi e partiti, sono rimasti prigionieri del consueto approccio meschinello all’Europa fotografato qualche anno fa dall’ex socialista francese Jean Pierre Chevènement: il luogo dove i governi vanno a prendere le decisioni di cui si vergognano al riparo delle opinioni pubbliche e degli elettorati nazionali.
Non si spiega diversamente la distanza fra l’esito politico finale di questi giorni e lo spettacolo poco edificante offerto in estate tra conciliaboli fra governi orwellianamente più uguali degli altri, cordoni sanitari, linee rosse fra le forze politiche autonominate “europeisticamente corrette” e quelle che non lo sarebbero, il cui unico obiettivo era quello di conservare gli assetti e gli equilibri esistenti, ovvero proprio quelli che hanno determinato priorità politiche che l’elettorato europeo, oltre a quelli di molti dei paesi che hanno di recente tenuto elezioni nazionali, ha mostrato di respingere.
E se la fretta di mettere in sicurezza gli assetti da parte della coppia governativa franco-tedesca, già allora parecchio traballante, si spiega con le rispettive crisi politiche interne successive, del tutto incomprensibile è la linea tenuta dai partiti tradizionali controparti dei popolari. Per mesi socialisti, liberali e verdi hanno semplicemente preteso che il partito più forte, l’unico ad avere alternative politiche concrete, rinunciasse a percorrerle, o anche semplicemente ad usarle come strumento di forza negoziale, per puro esercizio di “europeismo” senza alcuna contropartita politica.
Al contrario, sul tema più spinoso, quello della transizione ecologica, anziché fare concessioni per scongiurare accordi a destra, con una certa protervia che confina con l’analfabetismo politico ne hanno non solo rivendicato il portafoglio ma designato una personalità che rappresenta l’esatto contrario di ciò che serve per convincere un alleato recalcitrante, con il supporto forse distratto di una Von Der Leyen che pure, quando ha voluto, non ha esitato a suggerire di sostituire il commissario designato dalla Francia, a lei sgradito.
Avere le spalle al muro e comportarsi come se le avessero gli altri non poteva funzionare perché ignora le più elementari leggi della politica. Infatti non ha funzionato ed alla prova del voto finale la coalizione autonominata “europeista” è andata a farsi benedire. Ne emerge uno iato fra composizione dell’esecutivo e nuovi equilibri politici che può complicare il processo decisionale e che spetterà, appunto, alla politica, colmare. Ma, una volta smaltita la costernazione rituale per l’esiguità numerica della maggioranza, tuttavia, si potrebbe scoprire che il fallimento di quell’approccio è tutto fuorché una cattiva notizia.
Aver respinto l’eterna complicità autoreferenziale bruxellese, con le sue cerchie politicamente “legittime” e le sue agende prestabilite, in nome di divergenze di contenuti e, absit iniuria verbis, dell’esito elettorale, al contrario, può segnare la vera nascita dell’Europa politica democratica e, sperabilmente, propiziare la risalita della china del consenso per l’integrazione europea nell’opinione pubblica continentale, che proprio quelle dinamiche hanno condotto ai minimi storici.