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sanzioni

Budapest, Praga e Bratislava sono davvero le cattive d’Europa?

Popoli che sono vissuti 45 anni sotto il Patto di Varsavia non possono essere trattati solo tecno-burocraticamente. L'analisi di Lodovico Festa.

L’integrazione europea decolla contro Giuseppe Stalin, protetta dagli Stati Uniti con Piano Marshall e Patto Atlantico. Il cuore è carolingio: franco-tedesco ma con centralità anche lotaringia (Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo), l’ampia striscia di territorio da Milano al Benelux, man mano la  più “produttiva” del Vecchio continente. Un’omogeneità derivata dalla storia fa fruttare al massimo le scelte comunitarie: con il Mec arriva il miracolo economico degli anni ‘50 e ‘60. Compattezza economica e di governance permettono alla Cee di allargarsi senza scosse nel ‘71 (Regno Unito, Irlanda e Danimarca), nell’81 (Grecia) e nell’86 (Spagna e Portogallo).

Tra l’89 e il ‘91 si scioglie l’Urss e si riunifica la Germania. La nuova fase, con l’Italia destabilizzata da Mani pulite, è gestita da due personalità come François Mitterrand e Helmut Kohl con l’appena approvato Trattato di Maastricht e l’obiettivo dell’euro. A Parigi e Berlino si considerano superate le principali contraddizioni del processo d’integrazione continentale: si può guidare Bruxelles senza troppo affanno. Da qui deriva anche un declassamento dei presidenti della Commissione europea: da sperimentati politici come i Malfatti, i Mansholt, gli Ortoli e i Jenkins si passa a personalità “obbedienti” (vedi magistrale analisi dell’Economist nel 2021) come i Barroso, i Prodi, gli Juncker. In questo contesto avviene il grande allargamento: da 12 a 27 membri della Ue.

Tramontata la stagione dei giganti politici, arriva quella dei diarchi, delle tecnocrazie, degli automatismi. In tale contesto nella metà del primo ventennio del Duemila si forma un nucleo di opposizione a Bruxelles su politiche lgbt, migrazione e rapporti con la Russia che coinvolge man mano almeno quattro stati: Ungheria, Cechia, Slovacchia e in parte Austria. È interessante notare come l’area citata corrisponda più o meno all’impero asburgico dell’800. Di quell’era non c’è la brillantezza delle grandi capitali mitteleuropee, però c’è solidità delle campagne teresianamente riformate, un diffuso cattolicesimo popolare legato alle tradizioni, paura dell’islam (ora sotto specie di migrazione clandestina), qualche istinto autoritario, un rapporto con la Russia conservatrice dai tempi napoleonici e mettermichiani.

È ragionevole da parte di Bruxelles, Parigi e Berlino contrastare ogni fuoriuscita dalla stato di diritto, base dell’integrazione europea, opporsi ai cedimenti verso Vladimir Putin. Non sarebbe male, però, una riflessione sul perché la storia abbia sostituito in qualche misura la politica: una tendenza la cui responsabilità non può essere attribuita solo a Budapest, Praga e Bratislava. Popoli che sono vissuti 45 anni sotto il Patto di Varsavia non possono essere trattati solo tecno-burocraticamente. Ed è bene non dimenticarsi come in tali condizioni la Cina diventi particolarmente vicina: in questo senso una qualche simmetrica riflessione andrebbe rivolta a una Spagna che con Pechino anche via Sud America flirta apertamente.

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