Tra le molte considerazioni che stanno affollando il dibattito sulle ultime misure adottate dal governo – in particolare: la tassa sugli extra profitti bancari, le norme sull’aumento dei prezzi dei voli e il salario minimo, sul quale oggi si tiene a Palazzo Chigi un confronto tra maggioranza e opposizione – se ne può rimarcare una relativa al comune denominatore di tali norme: la cosiddetta legge di mercato, sbandierata da diversi osservatori quale faro che un esecutivo davvero liberale dovrebbe tenere sempre presente e prossimo, in modo da non alterare la dinamica tra domanda e offerta dalla quale consegue il giusto prezzo per beni e servizi. Si tratta di una visione piuttosto scolastica, che rimanda al paradigma ottimista dell’egoismo del birraio, secondo cui la somma degli interessi privati determina il benessere pubblico o almeno quello collettivo.
Sfugge però, nel merito della situazione attuale, che non ci troviamo in una situazione di reale confronto tra domanda e offerta e che il sistema di mercato è già fortemente alterato, non soltanto per colpa delle decisioni politiche. L’elemento distorsivo più evidente e rilevante è infatti la scelta di aumentare i tassi di interesse da parte delle banche centrali, Bce europea e Fed statunitense, per contenere l’inflazione. Obiettivo apparentemente sensato ma perseguito con una tattica davvero troppo basica, che ha come ovvio riflesso il rischio di deprimere gli investimenti e quindi la crescita economica dalla quale, siamo tutti d’accordo, dipende poi la qualità dei servizi pubblici e della nostra vita. L’ipotesi di aumentare la pressione fiscale è davvero impraticabile, in Italia e in molti altri paesi; quella di muovere sullo scacchiere le pedine e raschiare il fondo di un barile per ricavare un minimo di risorse da destinare alle esigenze di un altro, la strada perseguita più frequentemente, ha un respiro cortissimo. Dunque l’unica speranza è aggrappata alla possibilità di aumentare la ricchezza creando migliori condizioni di sviluppo: che poi questo lo si possa fare a colpi di norme e non sia invece la realtà dell’innovazione a consentirlo, è tutt’altro discorso.
Oltre ai rischi depressivi, il rialzo dei tassi ha poi una relativa efficacia sull’obiettivo di non far erodere i redditi sui quali, più che l’inflazione in senso astratto, pesa il rialzo dei prezzi, che sembra seguire dinamiche in parte indipendenti o, meglio, relative a singoli e specifici fenomeni in parte anche speculativi. Qui entrano in ballo le misure delle quali stiamo parlando, in particolare quelle sui voli che sono soggetti, come tutto il comparto della mobilità e del turismo, a rialzi improvvisi e dettati da una logica meramente finanziaria. Come è noto, il prezzo di un biglietto aumenta man mano che ci informiamo su quanto costa, poiché i software (che adesso amiamo chiamare algoritmi) identificano quella certa tratta, data e orario come un bene maggiormente richiesto, per il quale quindi si può chiedere un prezzo maggiore. Si obietterà che la domanda ha un’arma sempre pronta, non acquistare il bene o il servizio, e che se davvero le richieste calassero, per il fenomeno speculare a quello appena descritto, scenderebbero anche le pretese delle compagnie aeree. Ma la questione è molto più complicata: in alcuni casi, per esempio da e verso le Isole sulle quali si appunta parte delle degli interventi governativi, la libertà di scelta del consumatore e le opzioni alternative sono molto ridotte.
Basta un momento di riflessione per verificare come tutto il mondo economico, e soprattutto quello più celermente in via di sviluppo, sia soggetto a contraddizioni analoghe. Se si guarda al web, oggi cominciamo a chiederci se e come si possano tassare i profitti dei cosiddetti influencer, ma ci dibattiamo senza successi significativi da anni nel tentativo di costringere i grandi operatori a lasciare almeno una parte minima della ricchezza che realizzano nelle nazioni dove di fatto erogano i loro servizi. Il settore del delivery, che ha conosciuto una crescita enorme dopo la pandemia, realizza profitti molto alti imponendo condizioni contrattuali e salariali pessime ai propri lavoratori, in genere persone socialmente deboli e quindi prone ad accettare qualunque vessazione. L’incontro di oggi sul salario minimo a Palazzo Chigi, notiamo a margine, ha un intento meramente politico e dimostra una volta di più la maggior intelligenza politica (o furbizia, se si vuole) di Giorgia Meloni rispetto ai suoi avversari, incastrati nell’angolo di un’offerta di dialogo che non possono rifiutare.
Le banche, in fondo, non si sono che agevolmente adattate a questo andazzo, aumentando il proprio margine di profitto grazie al progressivo divario tra i tassi di interesse attivi e passivi. Che oggi si lamentino, così come le compagnie aeree, è scontato: ma altrettanto corretta è la replica del governo che vuole cambiare musica. A proposito delle posizioni emerse in questi giorni, fa anche sorridere l’atteggiamento dubbioso, con richiesta di chiarimento, dell’Unione Europea, sempre timorosa che l’Italia attui politiche di sostegno alle imprese o comunque di intervento nel libero mercato, quando è proprio Bruxelles la prima a farlo. Si pensi al colossale giro di finanziamenti e di penalizzazioni che si muove attorno alle cosiddette politiche green. Ma poi, di quale libero mercato parliamo in tempi di Pnrr oppure di super bonus? E ricordiamo che la prima proposta di imposta straordinaria è stata sollevata sui farmaci, dopo una pandemia che ha consentito alle aziende aumenti esponenziali di profitto solo in virtù di scelte sanitarie pubbliche. Per lo meno negli ultimi anni, l’economia europea e internazionale sono state drogate da scelte politiche ben oltre i limiti dell’overdose.