L’ultimo incontro si è svolto a pochi passi dal parlamento. Le delegazioni dei tre partiti austriaci, che da fine ottobre cercano di trovare l’accordo per dare al Paese alpino un nuovo governo, si sono riuniti la settimana scorsa a Palazzo Epstein, sempre sul Ring. È un edificio prestigioso realizzato dallo stesso architetto danese Theophil Hansen che tirò su il vicino parlamento, implementando lo stile neoclassico di matrice greca. Un omaggio alla democrazia, preso di peso dalle forme della patria del potere al demos e trapiantata nel cuore di quella che fu una capitale di impero e oggi lo è (o si illude di esserlo) della Mitteleuropa.
Ristrutturato mirabilmente, Palazzo Epstein è dotato di uffici e sale riunioni e ospita regolarmente anche eventi parlamentari. Ed è lì che i capi delle delegazioni di Övp, Spö e Neos, cioè popolari centristi, socialdemocratici e liberali hanno provato a sintetizzare le rispettive idee sul bilancio per dar vita a un governo tripartito che, nelle intenzioni del presidente della Repubblica Alexander Van der Bellen, dovrebbe rappresentare una sorta di esecutivo di salvezza nazionale dalle minacce dell’estrema destra. Quest’ultima, l’Fpö, le elezioni le aveva vinte, ma le sue posizioni radicali e una certa irrequietezza mostrata nella precedente esperienza governativa con l’Övp la rendono – come si dice con un brutto neologismo politichese – non coalizionabile.
Karl Nehammer, il cancelliere popolare uscente, incaricato da Van der Bellen di guidare il nuovo governo era presente all’incontro di Palazzo Epstein, un segnale che forse le frizioni delle settimane precedenti si stanno superando.
Il confronto sul bilancio, cioè sulla politica economica che questa inedita e avventurosa coalizione di tre partiti dovrebbe impostare nei prossimi anni, è decisivo. L’Austria sta attraversando la recessione più lunga dalla fine della seconda guerra mondiale, con una situazione economica che si sta rivelando persino peggiore del previsto. Le ultime stime, diffuse con qualche furbizia all’indomani delle elezioni, hanno confermato un quadro preoccupante: il Paese resta in recessione anche nel 2024, mentre il deficit di bilancio sarà più elevato di quanto inizialmente stimato. I principali istituti di ricerca economica austriaci, il Wifo (Österreichische Institut für Wirtschaftsforschung) e l’Ihs (Institut für Höhere Studien), hanno rivisto al ribasso le loro previsioni estive, anticipando per quest’anno una contrazione del Pil dello 0,6%. Come ha spiegato Gabriel Felbermayr, direttore del Wifo, questo calo segue quello del 2023, quando il Pil si era ridotto dell’1%: si tratta, dunque, della recessione più prolungata del dopoguerra.
La situazione austriaca è simile a quella tedesca. Al centro della crisi economica europea, il cuore del continente appare in difficoltà e la ripresa sembra ancora lontana. Per il 2025, i due istituti prevedono solo un modesto rimbalzo, con una crescita massima dell’1%. Anche questa stima è stata rivista al ribasso rispetto alle previsioni precedenti. Secondo Felbermayr, l’Austria sta subendo gli effetti della crisi industriale e della debolezza delle esportazioni, diminuite del 3,5% rispetto al 2023, con riflessi pesanti anche sul mercato del lavoro: sia Wifo che Ihs si aspettano un aumento della disoccupazione fino al 7%.
Se da un lato l’inflazione sta diminuendo e i salari sono in crescita grazie alle recenti contrattazioni sindacali, gli austriaci continuano a spendere con estrema cautela. I consumi, infatti, non crescono abbastanza per compensare la stagnazione degli investimenti. Il risparmio precauzionale, frutto dello shock inflazionistico ancora ben presente nella memoria della popolazione, resta elevato: molte famiglie percepiscono la situazione economica come insostenibile e preferiscono mettere da parte piuttosto che spendere.
La recessione ha portato l’Austria a un triste record: entro la fine del 2024, si prevede che oltre 7.000 aziende dichiareranno fallimento, il numero più alto degli ultimi quindici anni. Questo significa, in media, la chiusura di 22 imprese al giorno in un Paese con appena 10 milioni di abitanti.
Le cause della crisi austriaca sono in parte simili a quelle che pesano sull’economia tedesca. L’aumento dei prezzi dell’energia, aggravato dalla persistente dipendenza dalle forniture russe, continua a rappresentare un grosso ostacolo. A ciò si aggiunge l’impennata dei salari, che pur avendo superato la media dell’Eurozona, non ha giovato ai consumi interni e ha eroso la competitività dei prezzi dell’industria austriaca, fortemente orientata all’export. Non va poi sottovalutato l’effetto dei rialzi dei tassi di interesse decisi dalla BCE per contrastare l’inflazione: il costo del credito è salito, penalizzando imprese e famiglie. Ora questa politica sta rientrando, ma le ferite restano. Infine la crisi economica della Germania, primo partner commerciale dell’Austria, ha ulteriormente complicato il quadro.
Tutti i settori ne risentono: l’edilizia, in difficoltà per l’aumento dei costi dei materiali e degli interessi sui mutui, il commercio al dettaglio e, naturalmente, l’industria. L’unico spiraglio positivo arriva dal turismo, che sta lentamente riprendendosi dopo il durissimo triennio della pandemia, un periodo che aveva inflitto perdite considerevoli alle imprese del settore.
“La situazione economica dell’Austria è molto preoccupante,” ha dichiarato Holger Bonin, direttore dell’Ihs. Guardando ai numeri degli ultimi sei trimestri, Bonin ha evidenziato come il Paese sia diventato il “fanalino di coda” in Europa. Se questa tendenza non si invertirà, l’Austria rischia un declino graduale rispetto alle altre economie dell’Ue.