Nessuno dubita che Giuliano Amato abbia tutte le doti di acume e di dottrina richiesti per professare autorevolmente il diritto pubblico, ma l’ex presidente (senza offesa: non se ne può più di quello spagnolesco emerito che il giornalismo di queste parti, ben noto per la schiena dritta, da qualche tempo attribuisce non più solo ai “chiarissimi” cattedratici in quiescenza, cui spetta per uso consolidato, ma a chiunque sia ritenuto troppo “importante” per accomunarsi ai poveri cristi che hanno esaurito la funzione per cui erano retribuiti e entrano nella popolosa comunità degli ex qualcosa) negli ultimi decenni ha preferito alla penombra delle biblioteche universitarie i fari e i lustrini (oltre ai non disprezzabili trattamenti di quiescenza) delle cariche pubbliche, di cui ha raccolto una considerevolissima collezione: da “dottor Sottile” di Bettino Craxi a presidente del Consiglio a presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a componente e poi presidente della Corte costituzionale (e sicuramente trascuro numerose altre cariche ma per quello c’è Wikipedia che è gratis).
L’INTERVISTA DI AMATO A REPUBBLICA
Perfettamente logico quindi che la Repubblica gli abbia dedicato due pagine per un’intervista a largo raggio, subito dopo l’approvazione a Palazzo Chigi del progetto di riforma costituzionale che dovrebbe comprendere l’elezione diretta del premier, con la quale o per meglio dire contro la quale riforma il quotidiano romano spera di fare, assieme alle altre testate mainstream, il bis della campagna mediatica che 6-7 anni fa quasi azzerò le radiose prospettive politiche di Matteo Renzi.
Nell’intervista Amato ha detto quanto bastava per consentire a Repubblica di titolare, col solito understatement, “Assalto alla Costituzione”, ma al tempo stesso ha inserito tutti i caveat necessari per salvaguardare la sua personale onorabilità intellettuale e il suo prestigio di grand commis. In sostanza ha spiegato che questa riforma sovvertirebbe l’architettura costituzionale, anche se di questa architettura è rimasto in piedi solo il Presidente della Repubblica visto che gli altri pilastri, a cominciare dal Parlamento e dai partiti, latitano (questa è ovviamente una mia brutale sintesi del fluire argomentativo di Amato).
LA PRESIDENZA DELLA COMMISSIONE PER L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Siccome non si sa mai quale ghiotta sorpresa possa ancora riservare il futuro, Amato ha chiuso l’intervista con una piccola perdonabile civetteria: “L’intelligenza artificiale è la più adatta a capire per prima il momento in cui sarò affetto da demenza senile. E quando me lo dirà giuro che smetto”.
Una parte considerevole dell’intervista è dedicata alla difesa della sua ultima presidenza, quella di una commissione che dovrebbe studiare l’impatto della intelligenza artificiale sull’editoria (su quel che ne resta, mi permetterei di precisare); non solo a spiegare quanto egli stesso sia qualificato per l’incarico, quanto gli oligarchi del digitale implorino gli esperti delle scienze umane di aiutarli a irregimentare questa cosa meravigliosa e terrificante che si chiama intelligenza artificiale, ma anche a esortare chi lo critica a occuparsi seriamente di IA. “La scienza deve smettere di giocare a fare Dio” e quindi “anche per questo abbiamo la responsabilità di lavorare sull’IA”.
Vaste programme, verrebbe da dire, ma non essendomi mai occupato di queste stratosferiche materie non entro nel merito. Mi limito all’aspetto estetico delle dichiarazioni di Amato. Lo stile dei grands commis di una volta era diverso. Parlavano con le loro scelte e soprattutto non parlavano di sé stessi. Ma non è una critica: mi riferisco a moltissimo tempo fa, mentre Amato, in fondo, è un contemporaneo di Zerocalcare e come lui è condannato alla autoreferenzialità esibita. Da persone sensibili, sono sicuro che entrambi ne soffrano, ma non possono sottrarsi alla spietata regola della società dello spettacolo: “qualsiasi cosa, ma mai finire nel cono d’ombra”. Parole del fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari.