La spietata repressione nella regione del Tigray ha definitivamente illuminato la faccia nascosta di Abiy Ahmed. E dimostrato che con troppa fretta era stato assegnato al primo ministro dell’Etiopia il Premio Nobel per la Pace dal Comitato di “saggi” scelti dal Parlamento di Oslo. Ennesimo errore di un organismo sempre più contestato. Anche in passato infatti gli accademici hanno preso granchi, adottando scelte politicamente corrette sì, e quindi accolte con favore dall’universo mainstream (a cominciare dai mondi del giornalismo e dell’università), ma scorrette rispetto alla ratio del riconoscimento.
Negli anni settanta del secolo scorso il Premio Nobel per la Pace fu concesso al cancelliere tedesco Willy Brandt, in seguito accusato di aver spiato per conto dell’Unione Sovietica, e al leader palestinese Yasser Arafat, che non fece nulla per fermare il terrorismo in Israele e in Europa. Il passare degli anni, però, sembra non aver insegnato nulla agli accademici: lo testimonia l’assegnazione, oltre che ad Ahmed, all’ex presidente americano Barack Hussein Obama e alla premier birmana Aung San Suu Kyi.
Aung San Suu Kyi è ricordata per essere stata a più riprese ospite delle carceri birmane da dissidente, prima di essere premiata a Oslo. In seguito, con l’appoggio degli Usa di Obama e di Hillary Clinton, è diventata il simbolo della presunta (ma mai realmente avvenuta) svolta democratica birmana. Il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, è divenuto in sostanza il partito unico del regime, accesamente nazionalista e fortemente filo-cinese. Aung San Suu Kyi asserisce che in Myanmar (il nuovo/vecchio nome della Birmania) non avvengano persecuzioni etnico-religiose, nonostante gli accertati massacri delle minoranze (che sono il 30 per cento della popolazione) e in particolare dei Rohingyas, alle quali non è concesso nemmeno il diritto di voto.
Anche al più potente mentore della premier birmana, Obama, è stato concesso il Nobel per la Pace, addirittura prima ancora di entrare alla Casa Bianca. “Per avere compiuto – recita la motivazione – straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. In che cosa consistessero tali sforzi non è mai stato specificato. Viceversa, da presidente, Obama ha infranto ogni record nelle spese militari Usa (una media annua di 663,4 miliardi di dollari contro il precedente primato di 634,9 raggiunto da George W. Bush); ha rafforzato la presenza militare a stelle e strisce all’estero (sfiorando le 800 basi in 135 Stati diversi); ha accresciuto notevolmente la vendita di armamenti fuori dai confini nazionali (il 33 per cento dell’intero mercato mondiale contro il 30 per cento del predecessore Bush jr con clienti principali Paesi del calibro di Arabia Saudita e Turchia, non proprio fior di democrazie). Nel solo 2016 Obama ha ordinato di sganciare oltre 26mila bombe su sette Stati, in testa la Siria, provocando innumerevoli morti anche tra i civili e milioni di profughi. Ha pesantemente contribuito alla destabilizzazione dell’Africa settentrionale, con quel che ne è seguito, intervenendo in maniera dissennata prima di tutto in Libia. E, last but not least, ha riacceso la Guerra Fredda mettendo nel mirino la Russia di Vladimir Putin e inimicandosi il miglior alleato occidentale, fino ad allora, nel confronto con il terrorismo islamico e la Cina.
Il primo ministro etiope Ahmed non sfigura di fronte a questi predecessori. Ha accentrato il potere dello Stato federale ad Addis Abeba con tutti i mezzi a sua disposizione (tanto che molti osservatori paragonano il suo governo alla giunta nazional-militare di Menghistu), ha fatto arrestare il leader del principale partito d’opposizione (Jawar Mohammed), sta ri-destabilizzando il già precario Corno d’Africa e rischia lo scontro con l’Egitto, al quale – attraverso la costruzione di una enorme diga – rischia di prosciugare a monte il fiume Nilo, la principale fonte di ricchezza del Paese.