“Trauma un tempo era una parola usata per indicare le lesioni fisiche gravi. Poi arrivò a significare situazioni particolarmente stressanti che non si conciliano con le finalità tipiche dei rapporti tra gli esseri umani. Oggi, tuttavia, si usa con riferimento agli stress e alle tensioni della vita quotidiana. Tra poco non significherà più niente”. Così John Mac Ghlionn descrive, sullo Spectator, il progressivo svuotamento di senso delle parole di cui si abusa, ovvero la sazietà semantica.
Benché Ghlionn sia verosimilmente un conservatore (non scrive solo su Spectator ma anche su New York Post) e, come tale, citabile con cautela, la sua previsione ha buone probabilità di avverarsi. In fondo questo fenomeno che nasce con l’ingordigia semantica e si conclude con la sazietà assomiglia al gioco infantile di ripetere ossessivamente una parola finché queste smette di comunicare qualsiasi significato.
Non voglio certo affermare che il girotondo dell’ultima settimana intorno a due parole, “Antifascismo e Resistenza”, prima, durante e dopo il 25 aprile si possa assimilare al gioco infantile; ma il rischio che queste due parole si stiano avviando a una parabola non dissimile da quella descritta da un termine serio e importante come “trauma” non mi sentirei di escluderlo.
Nei primi quarantasette anni dell’ultimo dopoguerra i due termini che dovrebbero riassumere l’ispirazione della repubblica “nata dalla Resistenza” hanno potuto conservare il loro significato, protette da un’aura di sacralità: rilevare che la nostra repubblica era nata “anche” dalla Resistenza si sarebbe considerato di cattivo gusto. La memoria dell’antifascismo era affidata a giornalisti-scrittori come Giorgio Bocca: uomo tutt’altro che infallibile ma provvisto, oltre che di un grande talento nella scrittura, anche di quella cosa che si chiamava senso della misura; quel senso di cui, a giudicare dalla subitanea elevazione di Antonio Scurati a eroe della Resistenza e della libertà di espressione, e da innumerevoli altri episodi, si è perso il ricordo. Oggi è lo stesso presidente della Repubblica nell’intervento del 25 aprile a inchinarsi, da italiano, ai “circa trecentocinquantamila soldati, venuti da Paesi lontani, morti per liberare l’Italia e il mondo dall’incubo del nazifascismo”.
C’è chi è convinto che a questa obiettiva perdita di sacralità verbale della Resistenza e quindi dell’antifascismo (che curiosamente è iniziata con il crollo della Cortina di Ferro) si debba reagire raddoppiando le dosi. Quando però accade da un lato che un rappresentante della intellighenzia di sinistra che fu come Massimo Cacciari esclami “basta chiedere alla destra di abiurare il fascismo!” e che un comunista di quando il Pd si chiamava Pci, come Claudio Velardi, dichiari che “l’antifascismo è una categoria superata e inattuale” e aggiunga di esser certo che il nonno, antifascista vero, “non si rivolterà nella tomba” per questa sua dichiarazione, mentre dall’altro lato l’editoriale della vigilia del 25 aprile del Corriere della Sera si intitola “Ottant’anni non sono bastati” e il testo (di Ferruccio de Bortoli) precisa che non sono bastati a farci “provare insieme – senza amnesie e inutili distinguo – orrore e vergogna per la tragedia di una dittatura che trascinò l’Italia in guerra”, oppure Massimo Giannini, editorialista della Repubblica, istituisce con il suo account di WhatsApp una chat intitolata al 25 aprile (anche con effetti comici descritti senza pietà da Guia Soncini), vuol dire che la questione non è solo di parole.
C’è evidentemente un aspetto commerciale e di diritti d’autore sul quale non c’è bisogno di soffermarsi. C’è un aspetto politico che nasce dalla convenienza di usare la leva dell’antifascismo nella guerriglia delle variegate opposizioni alla maggioranza. Ma forse c’è qualcosa d’altro. Forse il ceto politico-intellettuale cresciuto nel dopoguerra sulle ceneri del regime fascista non ha ancora finito di metabolizzare il fatto, che ha effettivamente del miracoloso, di un’Italia non solo uscita dalla guerra mondiale con danni relativamente contenuti, senza passare attraverso una guerra civile come è accaduto per esempio alla Grecia che pure aveva combattuto il fascismo con le armi ai confini con l’Albania, ma seduta al tavolo della pace, a Parigi al fianco degli Alleati.
È possibile che nella memoria collettiva del ceto politico-intellettuale – soprattutto nelle sue componenti meno lucide – si annidi in qualche angolo un senso di imbarazzo per l’inspiegabile fortuna di un Paese che, da coprotagonista della tragedia inscenata da Hitler e Mussolini è riuscito a sfilarsi, prima che l’intero teatro gli cascasse addosso, da una porta di servizio. Di qui il bisogno mai saziato di mea culpa, di qui i reiterati “ora e sempre Resistenza”: inconsapevoli rituali, un po’ nevrotici e un po’ opportunistici, indirizzati al resto del mondo. Perché in fondo restiamo il paese del che cosa dirà la gente. Dietro la vergogna per la “parentesi” fascista, in questa ipotesi si nasconderebbe il trauma di averla potuto chiudere, la parentesi, solo aprendo la porta di servizio.
Non c’è però nulla di cui vergognarsi. La realtà è sotto gli occhi di chiunque non voglia rifiutarsi di vederla. L’Italia fu salvata anzitutto da quella élite che non si sa dove stia nei tempi normali (chi lo sa non spreca questo privilegio condividendolo), che non ha bisogno di leggere i giornali per capire dove il mondo stia andando, ma che si è sempre presentata (almeno finora) agli appuntamenti decisivi con la storia. Ovviamente è stata salvata anche dall’antifascismo “sottocutaneo” che al momento dovuto ha garantito una “atmosfera protettiva” alla Resistenza ufficiale, ma anche dalla resistenza senza la erre maiuscola della mafia siciliana, che prima ha costretto Mussolini a porre termine agli assedi del prefetto Mori e poi, al momento decisivo, ha offerto agli Alleati una base territoriale impagabile. In una parola è stata salvata dal fatto che pur dopo vent’anni di retorica fascista (ma non solo) l’Italia nel bene e nel male era ancora l’Italia.
Se questa preziosa élite senza volto in Italia esista ancora si vedrà ma è consentito dubitarne, dopo decenni di pedagogia e ingegneria sociale all’ombra dei Pm di casa nostra e degli eurocrati di Bruxelles…