Il balcone è sempre là, appiccicato alla facciata di palazzo Lobkowitz. Dal 1972, anno in cui Bonn e Praga ristabilirono i rapporti diplomatici, è la sede dell’ambasciata tedesca nella capitale ceca. Prima della sola Germania ovest, dal 1990 della Germania riunificata. Ma sebbene il palazzo in stile barocco sia bellissimo, posizionato nella cornice silenziosa di uno dei luoghi più magici della Mitteleuropa, il quartiere di Mala Strana, l’attrattiva principale è rappresentata da quei cinque metri quadrati di pietra sostenuti dalle due colonne che troneggiano accanto al pesante portone di legno d’entrata.
Lo chiamano il balcone di Genscher. Lissù, esattamente trentatré anni fa, l’allora ministro degli Esteri tedesco-occidentale provò a dire alle migliaia di cittadini tedesco-orientali assiepati da giorni nel giardino dell’ambasciata che erano liberi. Che la Ddr aveva ceduto e accettato di farli transitare verso la Germania ovest. Verso la libertà.
Provò a dirlo, ma le sue frasi vennero spezzate a metà dall’urlo incontenibile dei rifugiati che avevano capito. “Sono venuto da voi – iniziò Hans-Dietrich Genscher illuminato da una flebile lampada portata fuori per l’occasione – per rendervi partecipi che oggi il vostro permesso d’espatrio…”. Un boato gli impedì di continuare e forse anche il nodo in gola che nel frattempo lo aveva sopraffatto.
Da sette anni Genscher non c’è più, morto come gran parte dei protagonisti di quell’anno straordinario che cambiò gli equilibri quarantennali del globo. Ma fino agli ultimi anni della sua vita (morì nel 2016) era tornato spesso su quel balcone a riguardare uno dei luoghi simbolici dell’autunno della rivoluzione, quella scossa di libertà che nel 1989 crepò Muro di Berlino, disintegrò i regimi comunisti dell’est e produsse un effetto domino che nei mesi successivi si estese fino ai Balcani, alla Romania e alla Bulgaria e dopo ancora all’Albania.
Così come a ogni anniversario, continuano a darsi appuntamento anche tanti di coloro che in quei giorni avevano affollato i giardini dell’ambasciata. Si sono tenuti in contatto su internet, proprio attraverso il forum a loro dedicato che l’ambasciata tedesca di Praga ha aperto sul suo sito. Sono uomini e donne comuni, che in quelle giornate scrissero un pezzo di storia del Novecento, uno dei più gloriosi ed eroici. Si chiamano Rico Naumburger, Peter-Christian Bürger, Manuela Raduenz, Uwe Ruggans. Qualcuno utilizza soprannomi legati a quell’epoca, gettonatissimi i vari Gorby e Raissa. Vivono nella nuova Germania che hanno contribuito a far nascere, alcuni sono rimasti a ovest, altri sono tornati a est. L’emozione si rinnova ogni volta, il tempo non asciuga le lacrime di gioia, anche se per alcuni i destini successivi sono stati diversi dalle speranze covate quel giorno.
Era la sera del 30 settembre 1989, quella in cui Genscher arrivato da New York si affacciò dal balcone. Ed erano ottomila i profughi accampati in ogni angolo libero dei giardini. Ad agosto, le stesse scene si erano svolte a Budapest. L’Ungheria aveva aperto la prima breccia nella cortina di ferro, tagliandola lungo i confini con l’Austria, e migliaia di tedeschi dell’est, approfittando delle vacanze estive trascorse sul Balaton, avevano invaso la legazione della Germania ovest e ottenuto il passaggio a occidente.
Ma a Praga la situazione era diversa. La Cecoslovacchia non aveva alcuna intenzione di aprire le proprie frontiere con l’occidente e la sua dirigenza guardava ancora con sospetto l’ondata riformista che spirava da Mosca. Tuttavia, le condizioni precipitavano, i tedeschi orientali arrivavano a migliaia, stazionavano nei pressi di palazzo Lobkowitz e, appena potevano, scavalcavano l’inferriata e si rifugiavano nel territorio diplomatico della Repubblica di Bonn. Una situazione imbarazzante, difficile da gestire che, nel clima di “si salvi chi può” che si stava diffondendo tra i dirigenti del blocco comunista, suggerì ai leader cecoslovacchi di intimare a Honecker di trovare, al più presto, una soluzione.
Il luogo della svolta fu New York. L’occasione di una seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu fu sfruttata da Genscher per intavolare trattative con i dirigenti della Ddr e trovare la soluzione. Si avvicinava la data della commemorazione del quarantennale della fondazione della Germania comunista e la nomenclatura di Berlino Est non desiderava ritrovarsi tra i piedi una situazione imbarazzante come quella di Praga, con le tv internazionali piazzate fuori dall’ambasciata. Così diede il via libera, ma a una condizione: che i profughi fossero trasportati in Germania ovest attraverso treni sigillati tedesco-orientali e attraversando il territorio della Ddr. Non erano loro a lasciare la Germania Est. Era la Germania Est che li cacciava. Honecker pensava di aver trovato una formula che salvasse la faccia, in realtà la storia aveva già imboccato la via del non ritorno.
Il boato della folla accalcata in ambasciata aveva coperto la seconda parte dell’annuncio di Genscher. Quello nel quale il ministro degli Esteri specificava le modalità del viaggio. Ci volle molta diplomazia per convincere i fuggitivi che la polizia della Ddr avrebbe rispettato il patto e lasciato passare i convogli senza bloccarli. Così avvenne. Nella prima settimana di ottobre, dalla stazione di Praga partirono diversi convogli diretti a Hof, cittadina di confine della Germania ovest. Il percorso nella Ddr prevedeva il passaggio da Dresda. Un segreto che venne scoperto negli ultimi giorni: centinaia di cittadini assaltarono la stazione della città sassone, provando a salire sui treni. I disordini di quelle notti furono il preludio alle manifestazioni delle settimane successive. Si era ormai sanata la frattura fra coloro che fuggivano e coloro che intendevano rimanere in patria per cambiare il corso delle cose. La fuga dei primi mise in moto la protesta pubblica dei secondi. Il 1989, che aveva prodotto i primi cambiamenti in Polonia e Ungheria, iniziava anche in Germania Est.