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Russia e Cina hanno rotto il patto sul petrolio tra Usa e Arabia

I rapporti tra sauditi e americani sono precipitati, e Cina e Russia ne hanno approfittato. I tagli dell'Opec+ alla produzione di petrolio sono una conseguenza, e nuovi shock potrebbero seguire. Ecco cosa sta succedendo.

 

La collaborazione petrolifera tra la Russia e l’Arabia Saudita, il partner di riferimento degli Stati Uniti in Medioriente, rappresenta un pericolo per l’economia americana e anche per le sorti politiche del presidente Joe Biden, intenzionato a ricandidarsi alle elezioni del 2024. Secondo Bloomberg, la recente decisione dell’OPEC+ (il gruppo di paesi esportatori di petrolio guidato da Riad e Mosca) di tagliare la produzione di greggio di 1,6 milioni di barili al giorno “potrebbe essere solo l’inizio”. È lecito aspettarsi nuovi shock, cioè, perché il patto “petrolio in cambio di sicurezza” stretto tra gli americani e i sauditi nel 1945 sembra essersi rotto.

L’IMPATTO DEI TAGLI SUL MERCATO DEL PETROLIO

L’annuncio dei tagli ha avuto l’effetto di spingere in alto i prezzi del petrolio di 5 dollari al barile. Un aggravamento della condizione di “ristrettezza” del mercato – ovvero il sottile equilibrio tra i livelli di domanda e di offerta – potrebbe portare a un aumento dell’inflazione e del rischio di recessione economica: i consumatori spenderanno più soldi per l’energia, e dovranno risparmiare sui beni e i servizi di minore necessità. Nel contempo, il Cremlino potrebbe veder crescere le sue entrate e utilizzarle per finanziare l’invasione dell’Ucraina.

CALCOLI GEOPOLITICI E BISOGNI MATERIALI

Al di là del valore del greggio, la collaborazione tra Arabia Saudita e Russia è significativa perché rappresentativa di un mutamento delle alleanze geopolitiche: Riad si sta allontanando dall’orbita di Washington per coordinarsi con Mosca sul petrolio; e si affida a Pechino, la grande rivale americana, per distendere i rapporti con l’Iran, storica avversaria regionale. Di conseguenza, la capacità dell’Occidente di influenzare le decisioni dell’OPEC+ “è ai minimi da decenni”, scrive Bloomberg.

Al di là dei calcoli geopolitici, ci sono anche delle motivazioni prettamente economiche dietro ai tagli. La Russia di Vladimir Putin ha bisogno di prezzi alti del petrolio, intorno ai 100 dollari al barile, per sorreggere il proprio bilancio e pagare la guerra all’Ucraina. L’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, invece, sfrutta le rendite petrolifere per finanziare i suoi piani multimiliardari di trasformazione economica: ha bisogno di prezzi al barile sui 75-80 dollari per sostenere la spesa pubblica.

LA SITUAZIONE DEGLI STATI UNITI

Gli Stati Uniti sono i maggiori produttori di petrolio al mondo, ma la loro è un’economia libera, non pianificata: il governo non può perciò ordinare ai produttori di modulare l’output in una certa direzione. Di conseguenza, la Casa Bianca non può contare sull’aiuto dell’industria nazionale dello shale oil (si chiama così il petrolio non convenzionale americano, estratto dalle rocce di scisto) per compensare i tagli dell’OPEC+ e rifornire di barili il mercato internazionale. Le aziende americane hanno altri obiettivi da raggiungere, dovendo rispondere agli azionisti che chiedono disciplina fiscale e dividendi alti.

L’aumento dei prezzi del greggio potrebbe anche incentivare qualche nuova trivellazione, ma il settore dello shale guarda più al futuro prossimo che al presente: la transizione ecologica promette infatti di ridurre notevolmente i consumi di combustibili fossili, impedendo alle società petrolifere di rientrare delle spese sostenute oggi per l’aumento della capacità estrattiva. I prezzi alti del petrolio e la volatilità del mercato potrebbero peraltro accelerare, anziché disincentivare, il passaggio alle energie pulite.

Alcuni analisti – scrive Bloomberg – prevedono per i prossimi anni prezzi medi del petrolio oltre gli 80 dollari al barile, ben al di sopra della media di 58 dollari del periodo 2015-2021.

CHI CI GUADAGNA (L’OPEC+) E CHI CI RIMETTE (L’EUROPA)

Per l’economia mondiale, scarsità di offerta petrolifera e prezzi alti è uno scenario molto negativo. I paesi esportatori ne trarranno beneficio, ma quelli importatori – come la maggior parte dei paesi europei – potrebbero veder diminuire i livelli di crescita e aumentare quelli di inflazione.

Gli Stati Uniti si trovano invece in una situazione intermedia: sono dei grossi produttori ed esportatori, ma l’aumento dei prezzi dei carburanti minaccia il potere d’acquisto della popolazione. Stando ai calcoli di Bloomberg, per ogni aumento di 5 dollari del prezzo del petrolio, il tasso di inflazione americano cresce di 0,2 punti percentuali.

IL PATTO AMERICA-ARABIA SI STA PER ROMPERE?

Il patto oil for security tra Stati Uniti e Arabia Saudita ha iniziato a incrinarsi nel 2018, con l’omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi (lavorava per l quotidiano statunitense Washington Post) al consolato saudita di Istanbul.

Nel 2019 Biden – non ancora eletto presidente, ma già deciso a impostare una politica estera di promozione della democrazia – disse di voler fare di Riad uno stato paria, isolato dalle altre nazioni.

Nel 2021, una volta insediatosi alla Casa Bianca, ha rilasciato un rapporto di intelligence nel quale si accusava il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman di essere il responsabile dell’omicidio di Khashoggi.

Nell’ottobre 2022 l’OPEC+ ha tagliato la produzione petrolifera di 2 milioni di barili al giorno, meno di tre mesi dopo la visita di Biden a Riad, finalizzata anche all’ottenimento di un aumento dell’offerta di greggio.

Il mese scorso, l’Arabia Saudita e l’Iran hanno deciso di ripristinare le loro relazioni diplomatiche formali: l’accordo è stato mediato dalla Cina e firmato a Pechino. Riad ha inoltre deciso di aderire all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, un gruppo a guida cinese (ne fa parte anche Mosca) che ambisce a rivaleggiare con le istituzioni occidentali.

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