Skip to content

Verità e bugie sui mercati alle prese con Trump

Che cosa si dice e che cosa non si dice sulle reazioni delle borse alle mosse economiche e commerciali di Trump

 

Sulla politica economica di Donald Trump, i dazi, l’andamento delle Borse, siamo stanchi e insoddisfatti del racconto isterico, ansiogeno, intriso di luoghi comuni da bar dello sport che in questi giorni domina gran parte dei giornali di casa nostra, ma anche numerose testate internazionali.

Un modo di raccontare i fatti che ha già emesso la propria sentenza, solidamente fondata sul proprio pregiudizio. Il Bene da una parte, il Male dall’altra. Trump (meglio se accompagnato da Putin) e i suoi dazi all’inferno, le magnifiche sorti e progressive della Ue, paladina del libero scambio e della globalizzazione, in paradiso.

C’è chi è contento di farsi raccontare la Storia da, per esempio Ferruccio De Bortoli o Federico Fubini dalle colonne del Corriere della Sera (stendiamo un velo su Repubblica e Stampa), oppure da Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa sul Foglio. Noi no.

E allora andiamo subito al dunque, prendendo a uno a uno, a puntate, i tanti pregiud… ehm… le tante tesi che abbiamo ascoltato in questi giorni.

  1. Trump è un pazzo schizofrenico che, con i dazi annunciati (molti) e applicati (pochi), sta distruggendo l’economia Usa, sta turbando l’ordine economico mondiale e la Borsa lo sta punendo?

Ci permettiamo di dissentire per una serie di motivi. Il piano di Trump era chiaro in campagna elettorale e a quel piano gli elettori avevano detto di sì col voto, così come i mercati. Ricordate il “Trump trade”, partito già molte settimane prima del successo elettorale del 5 novembre? Il motivo conduttore era deregulation, riduzione delle tasse (meno tasse sul reddito, più entrate da dazi), crescita. Trump non ha cambiato idea, sta soltanto eseguendo i piani. Allora perché se i piani non sono cambiati i mercati si sono girati? Fino a ieri, tutti hanno cavalcato il “Trump trade” ed i prezzi incorporavano, con parecchie esagerazioni, quello scenario macroeconomico. Di conseguenza, fino al 19 febbraio scorso Wall Street è cresciuta senza soluzioni di continuità, così come il decennale USA, arrivato a toccare il 4,80% solo qualche giorno prima dell’insediamento. Per non parlare del dollaro, arrivato sempre in quei giorni a toccare i massimi (intorno a 1,02) dall’estate 2022. Contemporaneamente l’indice di Borsa europeo (Stoxx 500) fino a metà gennaio era come un elettrocardiogramma piatto. Da Davos, il Wall Street Journal parlava di nuova primavera americana e pubblicava il 27 gennaio una corrispondenza del seguente tenore: «Nonostante la raffica artica della scorsa settimana, un’allegria ha riempito l’aria come se fosse arrivata la primavera dopo un gelo durato quattro anni. Le aziende statunitensi sono uscite da una grande depressione. Sono entusiaste di investire e di vedere giorni migliori in arrivo. Al World Economic Forum di Davos, in Svizzera, la scorsa settimana, i leader aziendali hanno salutato una rinascita degli spiriti animali. “C’è un’enorme quantità di ottimismo”, ha affermato il presidente della Borsa di New York Lynn Martin. La pipeline di offerte pubbliche iniziali che si è congelata sotto l’assalto normativo di Joe Biden si è scongelata. L’esportatore di gas naturale liquefatto Venture Global, i cui progetti sono rimasti bloccati nel congelamento dei permessi di Biden, è diventato pubblico venerdì. “L’amministrazione Trump ha chiarito molto bene di sostenere la crescita delle esportazioni di GNL”, ha affermato il CEO Mike Sabel. Più in generale, il presidente Trump ha chiarito di sostenere le aziende americane e la crescita economica, in netto contrasto con l’amministrazione Biden. “Sono stata qui tante altre volte prima, e sono davvero colpita dal livello di ottimismo sugli Stati Uniti”, ha detto Katie Koch, CEO del gestore patrimoniale TCW Group, in un’intervista a Davos. “Riguarda la deregulation”.

Ancora più avanti si leggeva che «Le piccole imprese stanno celebrando in particolar modo la prospettiva della deregulation. Secondo il sondaggio della National Federation of Small Business Optimism, la percentuale netta di proprietari che si aspettano un miglioramento dell’economia è salita a dicembre al livello più alto dal quarto trimestre del 1983».

Un quadro rose e fiori. Eppure era già passata una settimana dalla prima raffica di ordini esecutivi di Trump (circa 70 nel primo mese di amministrazione, solo Joe Biden aveva superato quota 25 negli ultimi 11 mandati presidenziali). Allora, delle due l’una: o Trump non era stato sufficientemente chiaro nell’esporre i suoi piani, o i mercati USA avevano voluto leggere solo ciò che gli faceva comodo, ignorando di essere seduti dal 2017 su un’enorme bolla di prezzi, con valutazioni prezzo/utili ormai prive di senso. Basti pensare che, al picco, Tesla era arrivata a quotare oltre 125 volte gli utili futuri e anche le altre Big Tech Usa quotavano intorno a 25 volte. Sì, perché a tutti quelli che oggi sventolano grafici che mostrano l’eccezionale risalita delle borse europee da gennaio, bisognerebbe fornire anche un obiettivo grandangolare per allargare l’orizzonte d’osservazione e comprendere così la forbice di rendimento tra azionario tedesco e Usa proprio a partire dagli anni della prima presidenza Trump. Dopo 7 anni di eccezionale crescita, con un mercato azionario europeo ormai a prezzi da svendita, si attendeva solo un pretesto per una significativa rotazione settoriale e geografica. O qualcuno pensa che conveniva ancora acquistare le azioni Nvidia a 25 volte gli utili? I mercati (USA e europei) hanno semplicemente tardato a incorporare correttamente il nuovo scenario macroeconomico di medio-lungo termine – ripetiamo, noto da tempo – che vede un temporaneo rallentamento della crescita economica USA, che comunque viaggia a 2,5 volte quella europea e un flusso di capitali verso l’azionario europeo, una conseguente riduzione della forbice tra tassi dei titoli pubblici Usa e Ue (il Treasury è tornato intorno a 4,30%, mentre il Bund è salito fino al 2,90%) per le diverse prospettive di crescita e un altrettanto conseguente indebolimento del dollaro fino a 1,09.

Si chiamano prospettive macroeconomiche fondamentali incorporate nei prezzi, e il nuovo quadro macroeconomico trumpiano, fatto anche di una sana “disintossicazione” dei corsi azionari, era chiaro sin dal primo giorno di presidenza. Una delicata transizione un vero e proprio altro paradigma economico. Più crescita del settore privato, grazie alla crescita del settore manifatturiero nazionale protetto dal dumping dei concorrenti esteri con dazi mirati, meno spinta da parte del bilancio pubblico (più dazi, meno imposte sul reddito) e parziale riequilibrio della bilancia commerciale. Se a questo ci aggiungiamo che la politica di bilancio della UE e della Germania, pare aver abbandonato la storica impostazione restrittiva che ci ha peraltro condannato alla stagnazione dello scorso decennio, allora i prezzi i motivi del riprezzamento sono completi.

Tra le tante prove del pregiudizio contro Trump e della lettura distorta degli eventi sui mercati – qui non ci interessa contestarlo, ma soltanto provarlo – è l’esposizione ansiogena di un banalissimo dato sulla creazione di nuovi posti di lavoro negli Usa, pubblicato venerdì 7. Un dato sempre molto volatile e oggetto di successive revisioni. Ebbene, anziché 160.000 posti di lavoro attesi ne sono stati creati 151.000 e secondo autorevoli testate questa insignificante differenza è stata sufficiente per scatenare le vendite sui mercati. Prova troppo, avrebbe detto un avvocato. Ecco perché non crediamo al racconto di media quasi unanimemente pregiudizialmente schierati.

Se poi volete continuare a credere ai giornali che vi raccontano che i «mercati stanno punendo Trump», come ci è capitato di leggere, ovviamente liberi di credere all’economia raccontata al livello di fumetti di Topolino, correndo dietro a qualche post di Trump sui social e credendo che sia sufficiente a influenzare gli investitori.

Torna su