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Vi spiego l’autolesionismo di Trump con i dazi

I dazi di Trump stanno già abbattendosi sull’economia, e l’esito pressoché certo sarà una recessione con inflazione. L'analisi di Mario Seminerio, autore del blog Phastidio.

Dopo aver messo in pausa i dazi su smartphone e altri prodotti di elettronica, e dopo aver precisato che seguiranno tariffe specifiche sui semiconduttori dopo “indagine” ex Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, Donald Trump ha dichiarato che vuole “aiutare” alcuni costruttori di auto a trovare alternative domestiche alla produzione di componenti oggi realizzati in Canada e Messico. Aggiungendo che lui non cambia idea ma è “flessibile” e che a queste industrie serve “un pochino di tempo” per riconfigurarsi.

Chi ha davvero le carte perdenti

La dichiarazione ha rianimato la borsa e il settore auto, in quello che ormai è diventato un gioco perversamente stucchevole. Ma questa è l’ennesima conferma che Trump, malgrado il suo patologico narcisismo, sta progressivamente cogliendo l’assurdità della sua iniziativa. Il problema è che non sa come uscirne. Portarsi avanti credendo che ogni industria fosse in grado di sostituire in modo più o meno istantaneo fornitori esteri e allestire strutture produttive domestiche dà la misura della follia di questa cosiddetta strategia.

Nei giorni scorsi su Foreign Affairs è stato pubblicato un commento dell’economista Adam Posen, presidente del Peterson Institute for International Economics (PIIE) che fa letteralmente a pezzi, con eleganza e una prosa molto piana, l’idea trumpiana (peraltro comune anche a molti altri svalvolati, dai Brexiter ai nostri no-euro) secondo cui un paese in deficit commerciale avrebbe un vantaggio rispetto alla controparte in surplus, in caso di braccio di ferro commerciale.

Gli esperti di teoria dei giochi la chiamano escalation dominance, spiega Posen: è quella in cui un combattente ha capacità di escalation in un conflitto in modi che risultano costosi o svantaggiosi per l’avversario, che non può eguagliarli. Secondo Trump, ma anche secondo il suo Segretario al Tesoro, Scott Bessent, ogni paese in avanzo commerciale bilaterale contro gli Stati Uniti avrebbe la mano perdente di carte.

Posen argomenta che è vero esattamente il contrario:

Gli Stati Uniti ottengono beni vitali dalla Cina che non possono essere sostituiti nel breve periodo o prodotti a casa a costi inferiori a quelli proibitivi. Ridurre questa dipendenza dalla Cina può essere un motivo per agire, ma combattere l’attuale guerra prima di farlo è una ricetta per una sconfitta quasi certa, a un costo enorme. Oppure, per usare le parole di Bessent: Washington, e non Pechino, sta scommettendo tutto su una mano perdente.

Premesso che in una guerra commerciale entrambe le parti perdono, perché perdono l’accesso a beni di cui le loro economie hanno bisogno, e quindi è un atto di distruzione, l’analogia col poker è ancor più fuorviante perché quest’ultimo è un gioco a somma zero mentre il commercio è un gioco a somma positiva. La mentalità di Trump secondo cui il commercio è gioco a somma nulla, è foriera di conseguenze disastrose. I paesi esportano per ottenere il denaro necessario ad acquistare altri beni che non hanno o che sono troppo costosi per essere prodotti in casa. Quindi, bloccare il commercio riduce il reddito reale e il potere d’acquisto di una nazione.

La “roba” che manca, e dove trovarla

Ma veniamo al punto centrale dell’argomentazione di Posen: il vantaggio lo ha l’economia in surplus, non quella in deficit bilaterale:

La Cina, paese in surplus, sta rinunciando a vendite, che sono solo denaro; gli Stati Uniti, paese in deficit, stanno rinunciando a beni e servizi che a casa non producono in modo competitivo o per nulla. Il denaro è fungibile: se perdi reddito, puoi tagliare le spese, trovare vendite altrove, ripartire il peso in tutto il paese o attingere ai risparmi (ad esempio, attraverso uno stimolo fiscale). La Cina, come la maggior parte dei paesi con surplus commerciali complessivi, risparmia più di quanto investe, il che significa che, in un certo senso, ha troppi risparmi. L’aggiustamento sarebbe relativamente facile. Non ci sarebbero carenze critiche e potrebbe sostituire gran parte di ciò che normalmente vendeva agli Stati Uniti con vendite domestiche o ad altri.

I paesi con deficit commerciale complessivo, come gli Stati Uniti, spendono più di quanto risparmiano. In caso di guerra commerciale, l’impatto si fa sentire in settori, località o famiglie specifiche che affrontano penurie, a volte di articoli necessari, alcuni dei quali sono irrinunciabili nel breve termine. C’è poi l’altra faccia della medaglia dei deficit commerciali: i paesi in deficit importano capitale, il che rende gli Stati Uniti più vulnerabili ai cambiamenti di percezione riguardo all’affidabilità del proprio governo e alla sua attrattiva come luogo per fare affari.

Quando l’amministrazione Trump decide di imporre un enorme aumento di tassazione (i dazi) e una enorme incertezza sulle catene di approvvigionamento dei produttori, il risultato sarà un ridotto investimento negli Stati Uniti, con conseguente aumento dei tassi d’interesse sul suo debito.

Gli Stati Uniti si troveranno a gestire penuria di fattori produttivi critici, dagli ingredienti di base della maggior parte dei farmaci ai semiconduttori più semplici utilizzati in auto ed elettrodomestici, fino ai minerali critici per i processi industriali, inclusa la produzione di armi. La Cina sta adottando un sistema di licenze all’esportazione delle terre rare pesanti, quelle che entrano nella produzione di magneti per motori elettrici e nell’industria della difesa. A segnalare che è pronta a colpire dove fa più male.

Partire dal tetto per schiantarsi sulle fondamenta

E qui veniamo all’incredibile errore strategico di Trump: poiché gli Stati Uniti sono e restano pesantemente dipendenti da fonti cinesi per merci fondamentali quali ingredienti farmaceutici, semiconduttori di fascia bassa, minerali critici, è semplicemente suicida non aver apprestato filiere alternative (sempre che sia possibile) prima di tagliare i rapporti commerciali. Per molti aspetti, la strategia della presidenza Biden tentava di andare in questa direzione, sia pure a prezzo di costosi sussidi e senza garanzie di successo completo.

Trump ha rovesciato la prospettiva, almeno così crede: basta esborsi per sussidi, passiamo all’incasso con i dazi. Il moto perpetuo per arricchirsi, in pratica. Se non fosse che i dazi sono una imposta ferocemente regressiva e che distrugge i margini aziendali e quindi l’economia. Trump sta precipitando l’esito del danno che afferma di voler evitare. E sta minacciando di farsi esplodere in una stanza di cemento armato. Perché, come osserva acutamente Posen, la strategia americana poggia su crescenti dosi di autolesionismo solo per restare credibile. E ogni de-escalation è un colpo alla propria credibilità.

Ovviamente resta l’ipotesi alternativa, auspicata dai mercati e dalle imprese: che quella dei dazi sia solo una tattica negoziale, e che dopo alcune concessioni puramente cosmetiche da parte delle controparti commerciali degli americani, Trump dichiari vittoria e batta in ritirata. Ma la presenza al suo fianco di ascoltati apprendisti stregoni (Navarro), che vogliono spingere la guerra alle estreme conseguenze, non fa presagire nulla di buono.

Potremmo poi parlare di “quale” manifattura ha in mente Trump: se quella ad altissimo valore aggiunto delle industrie poste sulla frontiera tecnologica o quella dei telai tessili e della cucitura dei palloni, immagini con cui i cinesi sbertucciano gli americani su TikTok. Nel primo caso serve anche una accumulazione di cervelli a monte, prodotta in house o importata a mezzo visti. Che va in direzione opposta al rischio sempre più elevato di brain drain dalle università statunitensi, che il regime vuole porre sotto crescente controllo.

Master plan per un suicidio

Ma ci sarà modo di parlare anche di questo aspetto dell’autodemolizione sistemica di un impero morente. Per ora, Trump dichiara che i mercati “si stanno adattando” alla nuova realtà, quando invece reagiscono solo ad annunci di retromarcia sui dazi, e vissero tutti felici e contenti. Un giorno gli smartphone, poi le auto, un domani i farmer.

Nel frattempo, i dazi stanno già abbattendosi sull’economia, e l’esito pressoché certo sarà una recessione con inflazione. Diamo tempo ai costruttori americani di auto di trovare alternative domestiche alla produzione oggi fuori dal paese. Quando scopriremo che in nessun caso quella produzione può avvenire a costi anche solo uguali a quella sostituita, che faremo?

Mi ha molto colpito che Trump, nei giorni scorsi, abbia razionalmente ammesso che la sua cosiddetta strategia avrà costi e tempi di transizione non contenuti né brevi. Forse lo ha sentito da qualcuno, o letto da qualche parte. Il problema è che questa non è una strategia ma un master plan per un suicidio.

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