Il piano ReArm Europe ha lasciato dietro di sé molti dubbi, soprattutto in Italia. Innanzitutto, dubbi politici. Pur incassando il via libera del Parlamento europeo, infatti, la proposta di Ursula von der Leyen ha diviso in Italia sia la maggioranza di governo – con Forza Italia e Fratelli d’Italia a favore e Lega contraria – sia la sinistra – con mezzo Partito democratico astenuto e l’altro mezzo a favore, mentre il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra si sono schierati contro. Le riflessioni politiche all’interno degli schieramenti italiani sono quindi molte. Poi, però, ci sono i dubbi economici. Specie sulla fattibilità di un piano che solo all’apparenza comprende la quota di 800 miliardi di euro declamata dalla presidente della Commissione europea.
REARM EUROPE: DEBITO COMUNE EUROPEO O DEBITO NAZIONALE?
Il problema, infatti, è come raggranellare i soldi previsti. Degli 800 miliardi di euro, secondo il vago programma di von der Leyen, soltanto 150 sono compresi nel programma Safe (Security action for Europe), cioè debito comune per finanziare prestiti a lungo termine in materia di difesa, per quei paesi membri che vorranno accedervi. Per farlo, tuttavia, ci sono condizioni oltre che finanziarie anche tecniche: per esempio, i soldi chiesti dovranno essere investiti su progetti e programmi intraeuropei, con la cooperazione di almeno due membri. Un modo per provare a integrare, almeno in minima parte, la difesa europea.
Questi 150 miliardi, però, sono del tutto ipotetici. I paesi membri, infatti, potranno anche decidere di non usufruirne. O di scegliere di finanziarsi in modo autonomo, senza ricorrere al debito europeo. Perché è vero che quest’ultimo è in generale vantaggioso per quei paesi meno solidi dal punto di vista finanziario, come l’Italia o la Spagna. Ma è anche vero che per altri Stati, come la Germania, i Paesi Bassi e i paesi del nord Europa, più in salute finanziariamente, è il contrario.
ELASTICITÀ SUL PATTO DI STABILITÀ
Gli altri 650 miliardi decantati dalla Commissione Ue, invece, sono da ricondurre al debito pubblico nazionale dei singoli paesi. Finanziamenti che sarebbero esclusi dai parametri del Patto di stabilità, non dovendo sottostare alle regole del 3% di deficit annuale e del 60% di debito pubblico rispetto al Pil. Un elemento che da tempo viene chiesto dall’Italia, specie con il governo di Giorgia Meloni.
Nella mente di von der Leyen, i paesi potranno alzare le spese militari fino all’1,5% del loro Pil senza incorrere ai limiti fiscali europei. E quindi, se tutti lo faranno, calcolando quanto oggi spendono in percentuale del Pil sulla difesa, la stima è che la spesa da qui al 2028 aumenterà di 650 miliardi.
Oltre al carattere ipotetico, i limiti sono principalmente due, come sottolineato recentemente dall’Ispi: da una parte “fa ricadere sugli Stati l’onere di finanziamento sui mercati finanziari”, e il fatto di essere escluso della procedure di infrazione europee non comporta l’eliminazione del rischio di rialzi dei rendimenti dei titoli di Stato o di altre turbolenze finanziarie. Dall’altra il problema è che il debito nazionale “non garantisce di per sé una maggiore cooperazione tra le aziende nazionali per ridurre la frammentazione dei sistemi d’arma”, spiega ancora Ispi.
Stessa tesi sostenuta da Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera, che andando oltre ha spiegato i segnali positivi che potrebbero comunque esserci: “La buona notizia è che la spesa militare ad alto contenuto di innovazione ha un alto moltiplicatore sul Pil”. Non c’è certezza attorno al valore del moltiplicatore, spiega ancora l’economista, che può variare da 0,6 a 1,5, e quindi potenzialmente può sia autofinanziarsi che generare reddito supplementare. “Il moltiplicatore è tanto più alto quanto più alto è il contenuto di innovazione della spesa e tanto più gli investimenti sono fatti nell’industria europea”, ha spiegato ancora Reichlin.
INTEGRAZIONE DELLA DIFESA E AGENZIE EUROPEE ABBANDONATE
La questione dell’integrazione difensiva in Europa è da tempo ben presente. L’esempio dei 12 tipi di carri armati diversi ormai è inflazionato. Ma i passi in avanti sono stati pochi. L’Ue si è dotata nel 2004 in particolare di un’agenzia, la European Defence Agency (Eda), creata “per promuovere la collaborazione in materia di difesa nell’Ue”, si legge nel suo programma. “Il nostro lavoro aiuta i governi dell’Ue a evitare di avere sistemi diversi che non si integrano e che impediscono la condivisione di informazioni o anche pezzi di ricambio”, si legge ancora.
Ma con bilanci annuali di decine di milioni di euro, centinaia di dipendenti, l’agenzia non ha avuto un peso rilevante e i paesi europei sono ancora ben lontani dal raggiungere una vera integrazione. “Un apparato sostanzialmente ignorato dai governi”, spiega in maniera lapidaria il Corriere della Sera. Nel 2017 Bruxelles ha provato a lanciare la Card, (Coordinated annual review on Defence), che è una revisione annuale sullo stato della Difesa europea, sempre condotta dall’Eda. L’obiettivo è di individuare soluzioni per superare gli ostacoli verso una maggiore cooperazione tra gli Stati in termini di difesa. Ma oltre a indicare ai governi delle priorità – in pratica sempre le stesse – le raccomandazioni spesso finiscono nel vuoto.
FONDI DI COESIONE DESTINATI NELLA DIFESA?
Il piano ReArm Europe, però, prevede anche l’utilizzo di fondi europei in teoria già stanziati per altri fini che potrebbero essere dirottati sulla difesa. Come i Fondi di coesione, cioè i soldi destinati alle zone meno sviluppate dell’Europa che vengono stabiliti ogni sette anni. Se è vero che i paesi che ne beneficiano raramente riescono a spenderli nei tempi e nelle forme stabilite, tanto che per il ciclo 2021-2027 dei 526 miliardi di euro stanziati – ricorda il Post – ne è stato speso solo il 5%, dall’altra è difficile pensare politicamente che i governi nazionali possano reindirizzarli sulla difesa sottraendoli ai territori che li aspettano da tempo. Per esempio, la premier italiana Giorgia Meloni ha escluso tale possibilità.