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tecnologia

Come procede il decoupling (parziale) tra Stati Uniti e Cina

Fanno bene gli Stati Uniti a perseguire il decoupling dalla Cina, o devono sposare posizioni più moderate? Intervista di Marco Orioles Roberto Menotti, direttore di Aspenia online.

Quale atteggiamento devono mantenere le potenze democratiche di fronte a un Paese come la Cina con cui c’è una forte integrazione a livello commerciale ma che pone seri rischi a livello politico? Fanno bene gli Usa a perseguire il decoupling, ossia il disaccoppiamento dall’economia cinese, o hanno ragione quelle personalità più moderate come Jennet Yellen, convinte della necessità di mantenere viva la simbiosi economico-commerciale con Pechino? E qual è il nostro dilemma morale nel coltivare una relazione con un regime che opprime il proprio stesso popolo?

Sono questi i punti attorno a cui si snoda la conversazione che Start Magazine ha condotto insieme al direttore di Aspenia online Roberto Menotti.

La parola chiave, nel lessico politico di Washington e di quello degli analisti, è decoupling, disaccoppiamento. Ci vuole spiegare questo concetto applicandolo ovviamente alla relazione Usa – Cina?

Intanto credo sia utile partire dalla realtà del rapporto soprattutto economico tra Stati Uniti e Cina negli anni scorsi. È utile cioè avere un punto di riferimento, un elemento di comparazione con i trend che vediamo attualmente. Il punto di partenza è che l’interazione tra i due Paesi, ma in realtà più correttamente dovremmo parlare di integrazione, era molto stretta. Decoupling è un termine delicato, e indica un processo o una linea di tendenza che parte da uno stato di quasi simbiosi economico-commerciale tra questi due giganti.

Ossia il contrario di decoupling, vero?

Assolutamente sì. Noi abbiamo avuto almeno due decenni di coupling, ossia di movimento verso una forte integrazione.

Ci faccia qualche esempio.

Un primo indicatore riguarda beni di consumo di larghissima diffusione, e almeno inizialmente con costi piuttosto bassi, ossia tutta l’elettronica di livello medio-basso, low tech, in cui la Cina negli ultimi vent’anni ha avuto un ruolo assolutamente dominante: ha di fatto sostituito il Giappone, che aveva quello stesso ruolo negli anni Ottanta e Novanta. Poi c’è una fortissima interdipendenza, in entrambi i sensi, quindi di import-export, in campo agricolo e alimentare. Per non parlare dell’ambito finanziario: la Cina è diventata negli ultimi anni uno dei maggiori acquirenti al mondo dei titoli di stato americani.

Ossia dei famosi bond.

Certamente. Il che crea una interdipendenza di livello abbastanza sofisticato, di tipo finanziario. Per semplificare, la Cina conquista un importante peso nel rapporto con il dollaro, e al tempo stesso la Cina ha interesse che il dollaro valga molto.

Tornando al decoupling, mi sembra giusto precisare che si tratta di un processo bilaterale, che avviene cioè sia da parte americana che cinese.

C’è un processo in corso di parziale decoupling da entrambi i lati e questo processo ha un’origine ben precisa in quanto l’ha iniziato Donald Trump nel 2018 con una scelta tutta politica.

Con i famosi dazi.

Esatto. Questa è una vera e propria guerra commerciale che inizia negli Stati Uniti con il mondo del business fortemente contrario, soprattutto Wall Street era contraria a questa operazione. Quindi Trump nel 2018 introduce i primi dazi e innesca una rappresaglia da parti cinese attraverso controdazi, e a quel punto il processo diventa bilaterale. Quello che è molto importante politicamente è che quando alla Casa Bianca arriva Joe Biden lascia i dazi in vigore.

Quindi è un processo decisamente bipartisan.

Sì, assolutamente bipartisan. Sull’altro versante, sul fatto cioè che questa dinamica abbia prodotto effetti anche indesiderati, lo dimostra il fatto che oggi l’Amministrazione Biden stia cercando in qualche modo di contenere i danni. Risale a pochi giorni fa l’ultima dichiarazione della Segretaria al Tesoro Usa Yellen, che ha ricordato come un decoupling integrale sarebbe disastroso. Un conto infatti è un decoupling selettivo e settoriale, e parliamo soprattutto di alcune tecnologie digitali e delle terre rare, ma un altro conto è un completo decoupling che danneggerebbe entrambe le parti. Questo significa che la politica sta cercando di porre dei limiti a questa spirale che rischia di andare fuori controllo.

In ogni caso Biden sembra molto trumpiano.

È vero. Il rapporto con la Cina è l’unico elemento di continuità che io ho riscontrato fra le due Amministrazioni. Però va detto questo: per fortuna della globalizzazione la relazione tra Stati Uniti e Cina è molto variegata; l’integrazione riguarda molti settori. Io credo che il calcolo di Biden sia quello di ridurre fortemente la dipendenza strategica dalla Cina, soprattutto nel settore delle tecnologie digitali, pur mantenendo altri settori altamente integrati. Penso soprattutto al commercio di prodotti a più basso valore aggiunto, ma anche ad alcuni macchinari, o al settore agricolo.

È più o meno quello che ha detto Jennet Yellen.

Sì. Mi sembra che il piano A da parte americana sia di continuare questa battaglia commerciale, ma a livello settoriale, e di mantenere aperti i canali di scambio in tutti gli altri settori e soprattutto tenere aperti i canali di dialogo a livello politico. Quindi il tentativo, delicato e difficile, è quello di chiudere alcune interazioni mantenendo vive le altre. Naturalmente potrebbe essere necessario studiare un piano B, perché non è detto che i cinesi accettino questa soluzione. Tuttavia c’è da sperare che si mantenga un certo equilibrio in quanto il rapporto con la Cina è fondamentale per lo sviluppo e la crescita economica anche di altre regioni come l’Asean e soprattutto l’Europa.

Sembra a tal proposito che la famosa intervista di Macron a Politico volesse sottolineare proprio questo punto. Sembra proprio cioè che l’Europa fatichi tantissimo a immaginare un decoupling dalla Cina.

Senza dubbio. In questo senso va ricordata la posizione assunta dalla Commissione Ue, attraverso un discorso articolato da Ursula von der Leyen qualche settimana fa, con parole che sono state più equilibrate, più precise rispetto a quelle di Macron, il quale si è reso protagonista di un certo scivolamento soprattutto sulla questione Taiwan che a molti in Europa non è piaciuto. Questo soprattutto perché, in tutta franchezza, Macron non parla a nome di nessuno.

O meglio parlava pro domo sua.

Certamente. Nessuno di noi ha dato mandato a Macron di andare in visita in Cina. Ha tutto il diritto di andarci, ma non ha diritto di parlare a nome mio, dei tedeschi, degli spagnoli e di chiunque altro. Al contrario Ursula von der Leyen questo mandato ce l’ha, soprattutto se si parla di questioni commerciali che sono di competenza della Commissione.

Tuttavia von der Leyen ha avuto dei toni addirittura da falco, e ha espresso concetti cristallini sulla necessità, cito, di “derisking”.

Sì, io credo che von der Leyen abbia fatto un’operazione molto corretta soprattutto dal punto di vista della comunicazione. Ha insistito sul derisking più che sul decoupling, il che significa ragionare sulla diversificazione delle fonti e delle dipendenze, e anche sul rischio politico da non sottovalutare – l’esperienza con la Russia docet. Quello che nella von der Leyen è sembrato un atteggiamento un po’ da falco riguarda quegli aspetti sottolineati anche da Biden e che riguardano la necessità di mantenere una linea di fermezza di fronte a comportamenti aggressivi da parte cinese come nella questione di Taiwan o dei diritti umani. Diciamo che il tentativo di von der Leyen è stato quello di creare un filone transatlantico comune e questo per l’ovvia ragione che è meglio negoziare insieme con una parte scorbutica come la Cina.

Vogliamo concludere questa conversazione con una provocazione. Come si giustifica moralmente una relazione bilaterale così stretta con un Paese che rinchiude in campi di concentramento gli uiguri, impianta stazioni di polizia nei Paesi terzi per perseguitare gli expat dissidenti, ruba la nostra tecnologia e così via dicendo?

Domanda corretta e che è giusto porsi senza nasconderla sotto il tappeto. Ho sempre creduto che esista un campo di azione che potremmo definire la Realpolitik delle democrazie liberali che credono nei valori che contrastano con queste pratiche cinesi, democrazie che hanno il diritto e direi anche il dovere di perseguire una loro Realpolitik. Quindi è indispensabile avere a che fare con regimi oppressivi come quello cinese per ragioni di interesse, perché in un certo senso ce lo chiedono anche gli elettori che vogliono beni a basso costo, e perché, anche in termini di tutela dei valori, è molto importante avere un dialogo politico. Questa in fin dei conti è la lezione che abbiamo imparato con l’Unione Sovietica. Anche con l’Urss noi cercammo come Occidente di fare un’operazione in cui accettammo dei compromessi con quello che era un regime altrettanto oppressivo rispetto alla Cina, però chiedemmo nero su bianco attraverso la creazione dell’Osce che ci fosse anche una discussione sui diritti umani, sulla libertà di manifestazione e così via. E non dimentichiamo che alla carta dell’Osce si appellarono movimenti come Solidarnosc. Sono d’accordo con lei sul fatto che siamo di fronte a un dilemma morale, ma c’è anche un sottile crinale sul quale si può camminare sperando che poi alla fine quel regime evolva.

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