Si può sempre sperare che le ultime previsioni del Fondo monetario siano sbagliate. Non sarebbe del resto la prima volta. Qualche anno fa, in piena “Global financial crisis” – correva l’anno 2008 – i cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, previsti appunto dal FMI come bussola in grado di orientale le politiche economiche dei singoli Paesi, si dimostrarono del tutto cervellotici. Si pensava, allora, che ad un aumento di 1 punto del carico fiscale o di riduzione della spesa pubblica potesse corrispondere una caduta del Pil pari solo allo 0,5 per cento. Poco più di ruvida carezza per salvare il destino di tanti Paesi. Le scuse, se così di può dire, vennero fornite solo quando il disastro era stato consumato. Nel suo report Global Prospects and Policies dell’ottobre 2012 il Fondo monetario internazionale ammise gli errori: quelle ipotesi erano state troppo ossessive. Nel frattempo, la Grecia era sprofondata nel baratro, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e Cipro costretti a ricorrere alle cure del Salva Stati. L’Italia a cambiare registro: non più un premier eletto dal popolo, ma figlio delle alchimie politiche dei maggiorenti.
Questa volta, tuttavia, se si sbagliasse, sarebbe per un motivo opposto: un eccessivo pessimismo circa l’andamento dell’economia ed in particolare di quella di alcuni Paesi. Fa infatti una certa impressione leggere le nuove stime. A partire da quelle che riguardano l’intera economia del Pianeta. Il mondo crescerà forse (dubitare è d’obbligo) in media del 3,3%, ben al di sotto (- 0,4%) della media degli anni 2000-2019. Soprattutto non crescerà bene. Con alcuni Paesi in testa, come la Cina e l’India, e gli altri costretti ad arrancare. Tutti meno che gli Stati Uniti che sembrano invece destinati a progredire con un robusto 2,7% nel prossimo biennio. Ipotesi che non sembrerebbero giustificare le accuse di dumping, da parte di Donald Trump, non tanto nei confronti della Cina (che crescerebbe del 4,7%), quanto della Zona euro che invece vedrebbe impuntarsi con valori ben più bassi: 1% nel 2026 e 1,4 nel 2026. Con l’aggravante di una revisione a ribasso rispetto alle stime dello scorso ottobre dello 0,2%. Quando invece le nuove stime americane hanno comportato un upgrade dello 0,5%.
C’è solo da aggiungere che l’incertezza domina. Al punto che il FMI ha cercato di descrivere quel sentiment in un grafico, con un balzo all’indietro di oltre 5 anni, che ci riporta al 2018: quando “fattori di natura temporanea” aveva scritto allora Banca d’Italia, avevano “interagito con un’elevata incertezza a livello globale, riconducibile soprattutto alle tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina”. In quel periodo “le spinte protezionistiche” avevano “causato un’inversione di tendenza del processo di liberalizzazione del commercio mondiale.” Riflettendosi sugli “investimenti e gli scambi internazionali, in netto rallentamento nella seconda metà dell’anno.” Ed in un’incertezza che riguardava soprattutto la Zona dell’euro, avvolta in un mix paure e di verifiche tutt’altro che esaltanti.
Fa, quindi, una pessima impressione dover constatare come nel ranking dei 30 Paesi più significativi del Pianeta, l’Italia, come ritmo di sviluppo, si collochi al penultimo posto (29° posizione) nel 2025 e nell’anno successivo. Circostanza che sembra essere sfuggita alle opposizioni: sempre pronte a gettare la croce addosso al Governo per imputargli ogni possibile nefandezza. Se questo non è avvenuto, le ragioni sono evidenti. Non è facile criticare Giorgia Meloni, se poi i principali Paesi europei si trovano nella stessa posizione: la Germania ultima in classifica nel 2025, ed un impercettibile recupero (27° posizione) l’anno successivo. La Francia solo un paio di lunghezze sopra l’Italia. Ma, in generale, tutti e tre fanalini di coda. Unico Paese che in qualche modo salva l’onore del Continente è la Spagna che si trova in una posizione mediana: tra il 17° ed il 22° posto.
C’è quindi materia di riflessione: che mal si presta ai semplici anatemi. Il caso della Spagna, poi, riflette una sorta di legge del contrappasso. Durante la Global financial crisis, le banche spagnole furono foraggiate del Fondo Salva stati, prima e dal MES (il Meccanismo europeo di stabilità) poi. Sulla gestione di quei fondi è bene continuare ancora a stendere un velo pietoso. Servirono anche per finanziare il bingo e le squadre di calcio. Ma non è stato questo quello che alla fine è contato. L’importante è stato evitare l’avvitamento deflazionistico, quell’austerity senza progetto che, alla lunga, ha tarpato le ali ai Paesi concorrenti. E non solo ai presunti dissipatori, come l’Italia, ma alla stessa Germania, con tutte le sue fisime pauperistiche.
C’è solo da aggiungere che l’ultimo bollettino della Banca d’Italia si muove sul filo delle analisi del FMI. Il che rafforza dubbi e preoccupazioni. Quasi identico il giudizio sulla situazione internazionale. Con gli Stati Uniti destinati a vantare un relativo primato nei confronti di tutte le altre “economie avanzata”, le cui prospettive rimangono “scialbe”. Per riprendere il giudizio del FMI. Mentre il commercio mondiale difficilmente potrà superare le colonne d’Ercole di un tasso di crescita pari al 3%. Con un riflesso negativo nei confronti dei principali paesi industriali europei. A partire dalla Germania, ma subito dopo dall’Italia.
“Nel quarto trimestre del 2024, – ricorda Via Nazionale – le esportazioni italiane sarebbero state frenate da una domanda in decisa flessione. In prospettiva, le politiche protezionistiche annunciate dalla nuova amministrazione statunitense si ripercuoterebbero sulle vendite all’estero delle aziende del nostro paese. Il saldo di conto corrente è lievemente calato nel terzo trimestre, pur confermandosi in avanzo. Rimangono elevati gli acquisti da parte degli investitori esteri di titoli pubblici italiani, il cui differenziale di rendimento sulla scadenza decennale rispetto ai corrispondenti titoli tedeschi è diminuito.” Una sintesi che coglie le luci e le ombre della situazione italiana.
“Al termine del mese di settembre – registra sempre il Bollettino (pag. 31) – la posizione netta sull’estero dell’Italia era creditoria per 265,2 miliardi di euro, il 12,2 per cento del PIL; l’incremento rispetto alla fine di giugno, pari a 8,6 miliardi, è legato al surplus di conto corrente e conto capitale. Un contributo negativo è invece derivato dall’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro osservato nel terzo trimestre, che ha ridotto il valore delle attività denominate in valuta; il rafforzamento della divisa statunitense in autunno costituisce quindi un potenziale fattore di miglioramento della posizione creditoria dell’Italia”. Per avere un idea dei grandi progressi compiuti, basti considerare che nel 2013 i debiti con l’estero erano pari a 378,7 miliardi di euro. In poco più di un decennio il miglioramento è stato quindi pari a quasi 650 miliardi di euro: pari a più di un terzo dell’attuale reddito nazionale.
Bisognerebbe cogliere tutte le implicazioni necessarie da questi semplici osservazioni. L’Italia è un Paese che ha visto migliorare progressivamente la sua competitività nei confronti dell’estero. Se questi sforzi fossero stati sostenuti da un politica pro-growth molti dei patemi attuali ce li saremmo risparmiati. Come se li sarebbe risparmiati l’intera zona Euro. C’è un’ulteriore curiosità nel database del FMI, a corredo di quest’analisi. Ad occupare le posizioni più basse della classifica, relativa al prodotto interno lordo, non ci sono solo le ex potenze europee, ridotte al rango di vecchie signore che rimpiangono la loro perduta giovinezza. Nel 2025 il Giappone occuperà la terzultima posizione, l’anno successivo addirittura l’ultima.
Qual è il denominatore che unisce realtà così diverse e lontane non solo dal punto di vista geopolitico? La comune appartenenza alla old economy. A quel sistema produttivo, cioè, che ha ancora le stimmate del ‘900, ma che una politica economica sconsiderata – soprattutto a livello europeo – ha cercato di proiettare nel terzo millennio. Dimenticando che le relative specializzazioni tecnologiche di quelle produzioni non sono più compatibili con i livelli di benessere conquistati nelle società occidentali. Per quanto si possa sofisticare lo automotive che, in Germania pesa per il 16% sul totale della produzione industriale, il risultato non sarà in grado di reggere alla concorrenza di quei Paesi i cui costi – a partire dalla mano d’opera – sono ancora proibitivi. La miopia europea di questi ultimi anni è stata quella di aver tentato di stressare quel modello con politiche stabilizzatrici, invece di favorire il suo superamento verso la sponda della new economy. Sulle cui “magnifiche sorti e progressive” sventolano solo la bandiera a stelle e strisce degli Stati Uniti e quella rossa (ma ad una distanza che non impensierisce) della Cina.