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Perché non si fermerà la corsa dell’oro

Non solo oro. Cosa succede nei mercati. Il punto di Carlo Benetti, Market Specialist di GAM (Italia) SGR. 

L’inflazione è stata la grande alleata di Trump nella riconquista della Casa Bianca eppure, nonostante le promesse ad abbassare i prezzi “a partire dal primo giorno”, i prezzi continuano a salire. L’inflazione di gennaio ha mostrato un inatteso aumento del 3%, poco sopra le aspettative di un’inflazione ferma al 2,9% di dicembre. L’inflazione “core”, al netto delle variazioni dei prezzi di alimentari ed energia, è salita al 3,3% dal 3,2% di dicembre.

L’andamento dell’inflazione suggerisce che le dichiarazioni non bastano per abbassare il prezzo dei generi alimentari, tantomeno aiutano le minacce di dazi imposti sui maggiori partner commerciali o il rimpatrio forzato di migliaia di lavoratori impiegati negli allevamenti proprio mentre l’influenza aviaria distrugge l’offerta di uova.

Alcuni economisti temono che possa verificarsi una “seconda ondata di inflazione” come accadde negli anni Settanta: dopo il picco sopra il 10% del 1974, l’inflazione americana si attenuò per due anni prima di raggiungere il 14% nel 1980.

Impossibile dirlo, non basta un dato per individuare una tendenza, possiamo però dire che le condizioni dell’economia, del mercato del lavoro e, appunto, l’ultima lettura dell’inflazione rafforzano l’ipotesi che la Federal Reserve procederà lentamente con i tagli dei tassi di interesse. “Non siamo ancora a posto” ha detto Powell nell’audizione al Congresso, nonostante i progressi la politica monetaria resta restrittiva.

Per non farci mancare nulla, sul tavolo c’è anche la questione dell’indipendenza della banca centrale, un ulteriore elemento che alimenta incertezza e volatilità.

John Williams della Fed di New York lo ammette con franchezza, l’incertezza riguarda le politiche fiscali, commerciali, sull’immigrazione e anche il Board della Fed non ha idea di quali saranno le vere azioni dell’Amministrazione, ha bisogno di tempo per capire meglio come calibrare la politica monetaria nella nuova era trumpiana.

Nel mezzo della tempesta perfetta ci sono i Treasury, i titoli del Tesoro tradizionale “porto sicuro” degli investitori e che rappresentano il paradosso dell’offerta di protezione anche quando i focolai di incertezza sono negli Stati Uniti. Al centro del sistema finanziario globale, i Treasury costituiscono il mercato più liquido del mondo, balsamo di stabilità quando tutto il resto traballa.

Ora però, per la prima volta, sono in discussione la stabilità e l’affidabilità dello stesso sistema politico americano, il Treasury potrebbe essere l’anello debole di una catena di azioni e reazioni economiche che riguardano la dimensione assunta dai deficit gemelli (il debito federale e la bilancia commerciale) che la coppia Trump-Musk è determinata ad affrontare.

La nuova amministrazione non fa mistero di desiderare un dollaro più debole per sostenere la competitività delle esportazioni statunitensi e ridurre il deficit commerciale; una minore domanda di dollari significherebbe anche una minore domanda di Treasury ma, allo stato, le politiche annunciate vanno in senso contrario, di rafforzamento del biglietto verde.

Un possibile aiuto potrebbe essere prestato dalla rivalutazione delle riserve auree. Valutate nei conti pubblici a 42 dollari l’oncia, un loro aggiornamento ai valori di mercato comporterebbe una iniezione di circa ottocento miliardi di dollari nella contabilità del Tesoro. Un semplice tratto di penna attenuerebbe in un istante l’urgenza di nuove emissioni “monstre” di Treasury.

Anche la politica tariffaria costituirebbe una leva per negoziare uno sforzo di coordinamento ma, normalmente, il mercato dei cambi tende a vendere la moneta del paese che subisce i dazi (usando l’indebolimento della divisa a compensazione).

Entrano in discussione la stabilità e l’affidabilità dello stesso sistema politico americano, a beneficiarne è ancora l’oro, la cui corsa non si arresta e continua a mettere a segno nuovi record.

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