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Perché era preferibile una ripartenza differenziata tra regioni

Si poteva fare meglio e di più: differenziando le decisioni per farle aderire meglio alla mappa effettiva dell’epidemia nelle regioni. Evidentemente i meccanismi di concertazione tra i vari livelli dello Stato non hanno funzionato. Il commento di Gianfranco Polillo

Il 4 maggio inizia la “fase due”, in cui ciascuno di noi sarà un po’ più libero, dopo 55 giorni di totale lockdown e 69 dal momento in cui la Protezione civile ha iniziato l’opera di organizzare, in big data, i numeri della pandemia. Purtroppo maggioranza ed opposizione non hanno resistito alla tentazione di politicizzare, anche questa volta, le possibili scelte. Con 5 stelle, Leu e Pd a reclamare prudenza e senso di responsabilità e Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia a denunciare la mancanza di coraggio. Mentre Italia viva, per bocca del suo leader, faceva l’uno e l’altro. Invocava maggiori aperture, senza giungere, tuttavia, a incrinare il suo rapporto con la maggioranza. Posizione indubbiamente difficile da mantenere, come dimostrano i duri attacchi di Alessandro Di Battista, contro Matteo Renzi e l’invito rivolto ai suoi seguaci a “disinnescarlo” una volta per tutte.

Se questo è avvenuto sotto il cielo della politica, i non addetti ai lavori, vale a dire i cittadini, non sembra abbiano particolarmente gradito. Numerose le manifestazioni di dissenso, specie quelle organizzate dalle categorie, che hanno più da rimettere dalle limitazioni che sono state ancora poste: negozianti, albergatori, artigiani e via dicendo. De resto alcune scelte erano state paradossali fin dalla “fase uno”. Nei mercati rionali, ad esempio, ad alcuni era stato consentito aprire, ad altri no. Si poteva pertanto acquistare verdura o frutta, ma non farsi riparare le scarpe o comprare un paio di calzini. Tutela della concorrenza? Vallo a sapere.

Molte di queste limitazioni dureranno fino al 18 maggio, salvo possibili ripensamenti. Che sarebbero, tuttavia, auspicabili. Se solo si prendessero seriamente in considerazioni i dati della pandemia e si abbandonasse ogni velleità di tipo politico. Vale a dire l’idea di costruire sulla paura o sulla sfida un possibile futuro. I numeri dovrebbero essere la bussola in base alla quale orientare la governance, pur nel rispetto prudenziale delle luci e delle ombre che li caratterizzano.

Quelli nazionali illuminano un cambiamento di fase nel decorso dell’epidemia. Forse la svolta non sarà definitiva, come molti epidemiologici, ritengono, ma c’è stata. Dal 19 aprile il numero dei positivi (coloro che sono ancora malati) è sceso di oltre 7,5 mila unità. Gli exit (guariti e purtroppo deceduti) sono stati maggiori (quasi 38 mila casi) rispetto ai nuovi contagiati (30,3 mila) e quindi lo stock dei malati, per così dire, è leggermente diminuito. Per fortuna i morti sono stati poco più del 13 per cento tra coloro che hanno superato la malattia. Prossimo obiettivo: ridurre, fino ad azzerare, i nuovi contagi. Dopo rimarrà da curare solo quelli che hanno già contratto il virus.

I nuovi contagi sono stati, sabato scorso, pari a 1.900 casi. Ancora troppi. Sebbene il miglioramento risulti evidente: lo scorso 21 marzo erano stati più di 6.500. Mantenendo quel ritmo, per giungere alla soglia zero, ci vorrebbero più di 17 giorni. A ridosso del 18 maggio: data d’inizio della “fase tre”. Sembrerebbe, quindi, che la relativa programmazione, voluta dal governo, abbia un qualche fondamento. Che sarebbe anche più solido, se non vi fossero state le raccomandazioni (Scienza in rete: “R0, un mito da superare”) di Stefania Salmaso: esperta epidemiologa, con forti conoscenze statistiche. La quale ha osservato: “Il calcolo dell’indice R non sembra sufficiente e forse adeguato a descrivere l’intensità di contagio a livello nazionale, mentre è invece urgente sapere quando si sono ammalati e come si sono contagiati (a casa? nelle RSA? negli ospedali? nei posti di lavoro?) i nuovi casi registrati ogni giorno”.

In attesa di avere a disposizione, se mai vi saranno, questi dati, si può tentare, tuttavia, un livello minimo di disaggregazione. Quei 1.900 casi sono, infatti, la risultante di dinamiche molto diverse a livello territoriale. Solo 5 regioni (Emilia Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte e Veneto) sono responsabili per l’81 per cento del totale. Questo significa che, nella stragrande maggioranza del territorio nazionale, il risultato di un nuovo contagio pari a zero è stato già raggiunto. O in procinto di esserlo: nel Lazio e in Toscana le new entries sono pari a poco più del 4 per cento. Nelle Marche, in Trentino, in Puglia ed in Sicilia si è appena sopra l’1 per cento, e nelle restanti regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Molise, P.A. Bolzano, Sardegna, Umbria e Valle d’Aosta) vicino allo zero.

Anche nel gruppo di testa, tra l’altro, le differenze non mancano. In Piemonte e Lombardia i casi sono pari, rispettivamente, al 26 e 28 per cento: ben più preoccupanti dell’Emilia e della Liguria (intorno al 10 per cento) per non parlare del Veneto che presenta una percentuale pari al 6,6 per cento. Ma con una percentuale di guariti sul totale degli exit pari all’86 per cento, contro una media nazionale del 79. Insomma la dimostrazione che l’Italia è una Paese lungo e variegato. E che quindi le medie nazionali, considerato come ricordava sempre la Salmaso che “non tutti hanno le stesse probabilità di contagio”, sono un po’ come i polli di Trilussa.

Alla luce di questi numeri, le scelte del governo possono considerarsi ottimali? Francamente ne dubitiamo. Si poteva fare meglio e di più: differenziando le decisioni per farle aderire meglio alla mappa effettiva dell’epidemia. Prevedendo, ovviamente, vincoli opportuni per non mischiare le carte, tra Regione e Regione. Evidentemente i meccanismi di concertazione tra i vari livelli dello Stato non hanno funzionato. Il che rappresenta un problema in più cui porre mano, quando si uscirà da questo labirinto.

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