Si trattasse solo di propaganda, per quanto di cattiva fattura, tireremmo un sospiro di sollievo. Ci può anche stare. Ma, purtroppo, la sensazione è diversa. Il sospetto è che molti esponenti governativi parlano di cose che non conoscono. Prendiamo la risposta di Giuseppe Conte, nel corso della sua conferenza di fine anno. All’accusa che la manovra avrebbe aumentato il carico fiscale, secondo le precise indicazioni dell’Ufficio parlamentare del bilancio: uno 0,4 per cento nel 2019, e più o meno altrettanto negli anni successivi, la risposta è stata disarmante.
Non è vero: ha controbattuto. Le maggiori imposte graveranno solo sulle banche, le compagnie di assicurazione, i giochi e le grandi multinazionali del web. Al presidente del Consiglio appare, quindi, del tutto sconosciuto il principio della traslazione. Il fatto cioè che i soggetti colpiti non faranno altro che scaricare il relativo maggior onere sugli “utilizzatori finali”, per riprendere un concetto che fece discutere. Vale a dire sui relativi consumatori. È quindi facile prevedere un maggior costo dei mutui o dei relativi finanziamenti alle imprese. Aumenteranno anche i costi delle polizze assicurative, mentre i grandi colossi del web, che già hanno una presenza dominante sul mercato, chiederanno un prezzo maggiore per i loro servizi. Sui giochi le conseguenze saranno più incerte. Forse qualcuno rinuncerà, ma gli altri dovranno pagare.
Nel blog dei 5 stelle è stato presentato un lungo elenco degli sgravi, che sono stati decisi con la manovra. Al fine di rintuzzare il diluvio di critiche, paragonate ad atti “terroristici” prima dell’inevitabile, seppur tardivo, dietrofront. Ma non è stata indicato uno straccio di cifra. Per cui se con la mano destra riduco il carico fiscale, ma con la mano sinistra lo incremento di dieci volte tanto, il bilancio finale non può essere che quello indicato dall’Ufficio del bilancio, che i conti finali li sa fare.
Semplice furbizia pelosa o qualcosa di peggio? Questo è il dubbio vero che avvolge l’intera manovra. Per il prossimo anno avremo un mercato del lavoro più rigido, per effetto del “decreto dignità” che ha azzoppato il Jobs act. Minori volumi d’investimenti, come lo stesso governo è stato costretto ad ammettere di fronte all’Europa, che non si è fatta infinocchiare da sceneggiate di varia natura. Un carico fiscale, come appena detto, maggiore. E di conseguenza un tasso di crescita più contenuto. Al punto che anche quel modesto 1 per cento, scritto in grassetto sui documenti programmatici, rischia di essere una chimera.
Ancora peggiori le prospettive per il biennio successivo, quando si dovranno trovare risorse maggiorate per evitare l’aumento dell’Iva. Ben 19,2 miliardi circa nel 2020 e quasi 29 l’anno successivo. Anche in questo caso Luigi Di Maio assicura che sarà in grado di quadrare il cerchio. Nemmeno avesse a disposizione la lampada di Aladino. Ma se fosse stato così semplice, la Commissione europea si sarebbe accontentata. Parola di re. Ha invece preteso che quelle cifre fossero contabilizzate a bilancio. Indicando, fin da ora, le nuove aliquote a regime: dal 10 al 13 per cento, per l’Iva agevolata e dal 22 al 26,5 per cento per quella ordinaria.
Esiste quindi uno sfrido crescente tra desideri e realtà. Ed è questo l’elemento che toglie credibilità all’intera manovra. Tant’è che, a livello governativo, ci si affanna a teorizzare ch’essa è stata “scritta dal popolo, per il popolo”. Come se questo fosse, di per sé, sufficiente a renderla inattaccabile. Sarà pure così, ma ciò implica una regressione culturale di non poco conto. L’economia politica ha acquisito il suo statuto scientifico, al tempo di Adam Smith: era il 1776. Allora si consumò la definitiva separazione tra l’etica e la conoscenza delle regole di funzionamento su cui si regge il sistema economico. La distinzione tra il desiderio che deve illuminare l’azione politica dei governanti e la prosaicità del cambiamento effettivo, che si è in grado di realizzare.
Piani che sono nuovamente confusi nella retorica pentastellata. E che ne spiegano l’illogica incoerenza.