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Ecco come il mercato dei bond ha stoppato Trump

Per Trump il problema non è mai stato l’andamento del mercato azionario, ma ha sottovalutato (o credeva di gestirlo) l’impatto sulla vera cassaforte dell’amministrazione Usa, cioè i Treasury. Quella era ed è una leva su cui Trump è vulnerabile. L'analisi di Liturri

 

Ieri sera è arrivata la risposta alla domanda che il 20 febbraio apparve sulle colonne del Financial Times (“riuscirà il mercato dei bond a frenare Trump?”). La risposta è affermativa.

E ci sono anche numerosi indizi su chi ha materialmente premuto sulla leva del freno.

Basta guardare al grafico del decennale Usa tra le 4:30 e le 6:00 del mattino (ora di Roma) di mercoledì 9 aprile. A quell’ora sono aperti solo i mercati asiatici…

Pensare che stava andando (quasi) tutto bene per Donald Trump. Dopo l’annuncio di mercoledì 2 aprile, tutti i mercati azionari ampiamente sopravvalutati avevano cominciato una (anche questa attesa, non era noto solo il “quando”, essendo relativamente certo il “se”) salutare correzione. Simmetricamente i prezzi dei bond Usa erano saliti (tassi in discesa), con gli investitori alla ricerca del bene rifugio per eccellenza. E il segretario del Tesoro Scott Bessent non poteva che essere contento, essendo suo interesse quello di abbassare il costo di finanziamento del debito pubblico stelle e strisce.

Il punto è che movimenti così ampi e repentini hanno determinato un’altrettanto rapida liquidazione di posizioni ad altissimo rischio (leva fino a 50 volte) che hanno coinvolto anche il totem intoccabile di qualsiasi amministrazione Usa: il mercato dei bond governativi. Da lunedì è partita una massiccia ondata di vendite, con gli hedge fund a corto di liquidità e con la necessità di ricostituire i margini a garanzia delle loro posizioni, finendo così col vendere il bene più liquido dopo i depositi bancari, cioè i bond Usa. A ciò si aggiunge la necessità di chiudere posizioni montate proprio sui bond USA (qui i dettagli per i tecnici e gli appassionati di finanza).

Questo è quello di cui si sa con relativa certezza. Circa presunte massicce vendite di Bond da parte della Cina, l’ipotesi è plausibile, ma non avremo mai le prove. Quindi resta scenario da fantafinanza.

Per Trump il problema non è mai stato l’andamento del mercato azionario, ma ha sottovalutato (o credeva di gestirlo) l’impatto sulla vera cassaforte dell’amministrazione USA, cioè i Treasury. Quella era ed è una leva su cui Trump è vulnerabile, essendo la riduzione dei tassi un obiettivo e uno strumento, al contempo, della sua politica economica.

Movimenti così ampi dell’azionario non potevano non avere un impatto sui bond governativi, ampiamente usati come strumento di garanzia. Quando il mercato dei Bond è stato sull’orlo del malfunzionamento, con tassi che si muovevano erraticamente, allora Trump e i suoi consiglieri hanno dovuto correggere la rotta.

Il progetto resta intatto, ma Trump dovrebbe aver capito che non è l’unico ad avere le carte. Non è nemmeno l’unico a poterle dare.

In tutto questo, resta un mistero il ruolo della Fed. Soprattutto la riunione a porte chiuse annunciata per le 11 (orario di Washington) di lunedì 7, avente ad oggetto decisioni in materia di tassi di interesse, e del cui esito non si è saputo più nulla.

Il sospetto è che Jerome Powell sia rimasto relativamente fermo, contribuendo alle decisioni di Trump.

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